IL CARRO ARMATO racconto di Paola Leoncini
28-04-2024 21:30 - Testi da leggere
IL CARRO ARMATO
di Paola Leoncini
Prologo
25 aprile 1945, tarda sera.
Collecchio, Parma
La notizia arrivò in casa come un fulmine a ciel sereno:
"Hanno preso Giovanni! Giovanni è prigioniero degli Americani!".
Giuseppe, il fratello maggiore, di soli 5 anni più vecchio di lui, ma già ben inserito nel mondo del lavoro, per giunta ai piani alti (era funzionario del Ministero della Difesa), dopo un attimo di panico nel quale si infilò le mani nei capelli, riprese il controllo dei nervi e della situazione, attivando la sua mente e il suo entourage per andare a liberare il suo Giovanni.
Aviano, Friuli
Riuscito a sapere dove si trovava, Giuseppe arrivò a destinazione in macchina, trafelato, col cuore in gola e il terrore che Giovanni avesse dovuto subire sevizie. Sugli uomini dell'Esercito Alleato non gravava la famigerata nomea di carnefici crudeli che invece caratterizzava i membri di quello tedesco, ma girava voce che neppure i primi fossero teneri con i nemici, presi prigionieri. Tuttavia, quando, finalmente, ebbe la possibilità di entrare nella base friulana, lo spettacolo che gli si presentò, lo lasciò a bocca aperta.
In una stanza, non molto ampia, arredata solo con un tavolo lungo e qualche sedia, Giovanni era in piedi sul tavolo, e cantava in dialetto parmense, accompagnato da un coro di soldati, che cantavano in inglese e battevano le mani a ritmo della musica, ognuno con una bottiglia vuota di birra o whisky in mano.
All' ingresso di Giuseppe, magro, non molto alto, il volto teso, elegante nei suoi abiti scuri, i militi smisero di cantare e si alzarono in piedi, avvertendo un rispetto che comunque era dovuto a quell'uomo, pur essendo un nemico.
Giovanni scese dal tavolo e abbracciò il fratello, poi, tutti tornarono a cantare e a battere le mani, trascinando anche Giuseppe nell'allegra baldoria.
"Is he a friend of yours? (E' un tuo amico?)" chiese un soldato americano, un ragazzone alto e biondo, indicando Giovanni a Giuseppe.
Non conoscendo l'inglese, Giuseppe non capì una virgola di ciò che il soldato gli aveva appena detto, tuttavia, la felicità di vedere il fratello, ancora tutto intero, in buone condizioni fisiche e in quella situazione gaia, lo portò ugualmente a rispondere in modo affermativo. Il soldato comprese e sorrise a sessantaquattro denti.
"He's a jolly lovely pal!" (E' un ragazzo davvero simpatico) si complimentò, battendogli una mano sulla spalla.
Giuseppe continuò a non capire, ma sorrise anche lui e si trovò a portar fuori Giovanni a forza da quella stanza.
"Mi stavo divertendo! - protestò Giovanni, allegramente - Sono simpatici questi americani!".
Usciti dall'edificio che ospitava la base, Giuseppe fu avvicinato da un suo dipendente il quale gli comunicò che doveva raggiungere una località per un appuntamento importantissimo di lavoro.
"Vai, Giuseppe! - disse Giovanni - Mi arrangio da solo. Ci vediamo a casa!".
Giuseppe lasciò a malincuore suo fratello, essendo in ogni caso anche lui consapevole che Giovanni se la sarebbe davvero cavata molto bene, come aveva sempre fatto sin da piccolo.
La notizia arrivò in casa come un fulmine a ciel sereno:
"Hanno preso Giovanni! Giovanni è prigioniero degli Americani!".
Giuseppe, il fratello maggiore, di soli 5 anni più vecchio di lui, ma già ben inserito nel mondo del lavoro, per giunta ai piani alti (era funzionario del Ministero della Difesa), dopo un attimo di panico nel quale si infilò le mani nei capelli, riprese il controllo dei nervi e della situazione, attivando la sua mente e il suo entourage per andare a liberare il suo Giovanni.
Aviano, Friuli
Riuscito a sapere dove si trovava, Giuseppe arrivò a destinazione in macchina, trafelato, col cuore in gola e il terrore che Giovanni avesse dovuto subire sevizie. Sugli uomini dell'Esercito Alleato non gravava la famigerata nomea di carnefici crudeli che invece caratterizzava i membri di quello tedesco, ma girava voce che neppure i primi fossero teneri con i nemici, presi prigionieri. Tuttavia, quando, finalmente, ebbe la possibilità di entrare nella base friulana, lo spettacolo che gli si presentò, lo lasciò a bocca aperta.
In una stanza, non molto ampia, arredata solo con un tavolo lungo e qualche sedia, Giovanni era in piedi sul tavolo, e cantava in dialetto parmense, accompagnato da un coro di soldati, che cantavano in inglese e battevano le mani a ritmo della musica, ognuno con una bottiglia vuota di birra o whisky in mano.
All' ingresso di Giuseppe, magro, non molto alto, il volto teso, elegante nei suoi abiti scuri, i militi smisero di cantare e si alzarono in piedi, avvertendo un rispetto che comunque era dovuto a quell'uomo, pur essendo un nemico.
Giovanni scese dal tavolo e abbracciò il fratello, poi, tutti tornarono a cantare e a battere le mani, trascinando anche Giuseppe nell'allegra baldoria.
"Is he a friend of yours? (E' un tuo amico?)" chiese un soldato americano, un ragazzone alto e biondo, indicando Giovanni a Giuseppe.
Non conoscendo l'inglese, Giuseppe non capì una virgola di ciò che il soldato gli aveva appena detto, tuttavia, la felicità di vedere il fratello, ancora tutto intero, in buone condizioni fisiche e in quella situazione gaia, lo portò ugualmente a rispondere in modo affermativo. Il soldato comprese e sorrise a sessantaquattro denti.
"He's a jolly lovely pal!" (E' un ragazzo davvero simpatico) si complimentò, battendogli una mano sulla spalla.
Giuseppe continuò a non capire, ma sorrise anche lui e si trovò a portar fuori Giovanni a forza da quella stanza.
"Mi stavo divertendo! - protestò Giovanni, allegramente - Sono simpatici questi americani!".
Usciti dall'edificio che ospitava la base, Giuseppe fu avvicinato da un suo dipendente il quale gli comunicò che doveva raggiungere una località per un appuntamento importantissimo di lavoro.
"Vai, Giuseppe! - disse Giovanni - Mi arrangio da solo. Ci vediamo a casa!".
Giuseppe lasciò a malincuore suo fratello, essendo in ogni caso anche lui consapevole che Giovanni se la sarebbe davvero cavata molto bene, come aveva sempre fatto sin da piccolo.
*********
La jeep
La guerra era finita.
Il 25 Aprile ne decretò il termine e l'Italia, distrutta, festeggiò l'avvenimento come la fine di un terribile incubo, durato 5 lunghi anni, e costato milioni di morti.
Da quel momento, Giovanni e i suoi compagni di sventura furono liberi e i carcerieri si disinteressarono completamente del loro destino, tornando alle antiche competenze. Ma nessuno di loro dimenticò quell'uomo, non un gigante di statura, ma con il fisico irrobustito da anni di sport, i capelli neri e gli occhi azzurri. E soprattutto nessuno dimenticò che Giovanni, ingegnere meccanico, laureatosi al Politecnico di Torino in tre anni e mezzo, aveva contribuito, nel suo piccolo, ad una svolta della guerra progettando e mettendo in pratica la possibilità di colpire i bersagli nemici di notte grazie ad un sistema di puntamento, quasi fantascientifico all'epoca, che sfruttava i raggi infrarossi e le fotocellule.
Dal momento della liberazione, Giovanni ebbe in testa di tornare a casa in un modo o nell'altro e con qualsiasi mezzo avrebbe trovato a disposizione.
Nel vasto parcheggio della base di Aviano, svuotata ed abbandonata, riposavano alcune grosse jeep. Giovanni andò in avanscoperta, salì a turno su ognuna delle auto, ne provò l'efficienza del motore e il contenuto del serbatoio, congiungendo i cavi penzolanti in basso, dopodiché, trovati due che scintillarono, confermandogli il funzionamento della vettura, fece cenno ai suoi amici, Giorgio e Andrea, di salire in macchina, quindi accese il motore e tutti e tre partirono.
A fine conflitto, le strade erano in condizioni disastrose, specialmente al Nord che aveva subito la guerra in modalità senza dubbio più pesante rispetto al resto del Paese, essendo situato al di sopra della famosa Linea Gotica. In situazione normale, con una buona automobile, la distanza fra Aviano e Parma si copre in tre ore e un quarto (circa 300 Km) ma, a fine guerra, per tornare in Emilia, Giovanni e i suoi amici impiegarono una giornata intera e dovettero considerarsi fortunati.
Pochi chilometri dopo, al volante, Giovanni si accorse che l'indicatore del carburante era in settore di riserva e sapeva che non sarebbe stato facile rimediare benzina; per di più, la tabella di marcia era notevolmente rallentata dalla gimkana che il giovane era costretto a compiere per evitare gli ostacoli costituiti da buche grandi come crateri, sassi, pezzi di asfalto saltati e lasciati in mezzo alla carreggiata, carcasse di veicoli, ed anche qualche cadavere non rimosso per assenza di servizi deputati allo scopo.
Era già notte, ma ad un certo punto, pur al buio, fra quegli ostacoli, Giovanni fu certo di vedere qualcos'altro; qualcos'altro che credette di riconoscere.
"Giù dalla macchina, ragazzi!" urlò, tuffandosi fuori dall'auto, sulla strada, lui per primo.
I due compagni, seduti al suo fianco e sul sedile posteriore dell'auto, rimasero un attimo interdetti e, ad un secondo grido dell'amico, si buttarono anche loro meccanicamente dalla macchina.
Senza più guida, la jeep avanzò per due, tre metri, come un ubriaco sulla carreggiata, ed esplose come un vulcano in eruzione, illuminando quel tratto di ciò che una volta era un nastro stradale.
Rotolati in mezzo all'erba alta dei prati, ai lati della strada, i tre restarono stesi a terra, storditi ed indolenziti dal botto per alcuni secondi poi, rialzatisi, si riunirono sul ciglio della via.
Il falò provocato dall'esplosione rivelò per qualche minuto il triste paesaggio che li circondava.
In lontananza, al confine estremo dei campi incolti, su entrambi i lati della strada, raggiunti debolmente dall'alone aranciato delle fiamme che si alzavano dal rogo della vettura, si delineavano i contorni delle macerie edilizie come spettri nelle tenebre, dai cento occhi ciechi dentro orbite nere.
"Come cavolo hai fatto a vedere quella mina al buio?" chiese allibito Andrea a Giovanni.
"Sono nictalopo" rispose Giovanni, soddisfatto.
"Nicta-che?" esclamò Andrea, che non aveva ancora mai sentito questo vocabolo.
"Nictalopo" ripeté Giovanni, divertito.
"Cos'è? Una bestia?" chiese Andrea, sempre stupito.
"Sì. - rispose Giovanni, in tono finto serio - Come te".
"Nictalopo è uno che ci vede bene di notte" tenne a precisare Giorgio, con l'aria del maestro saccente.
"Ecco, - puntualizzò Giovanni - Bravo. - si complimentò con Giorgio. Poi, rivolgendosi di nuovo ad Andrea: - Vedi? Lui ha studiato".
"Beh, ma adesso che facciamo?" chiese, sconsolato, Giorgio.
"Andiamo in cerca di un altro mezzo per tornare a casa" rispose Giovanni, nell'atteggiamento di chi era molto ottimista nel trovarlo, malgrado tutto.
Giovanni non aveva bisogno di stimoli per vedere la vita in rosa.
L'ottimismo era nel suo DNA sebbene si fosse avvicinato pericolosamente alla fine della sua esistenza in più di un'occasione, a cominciare dalla sua prima infanzia.
Sua madre era morta di spagnola quando lui aveva solo sei mesi e suo padre, non sapendo come allevarlo, lo aveva affidato ad una signora in paese che però aveva l'abitudine di dar da mangiare solo ai suoi figli, dimenticandosi del piccolo Giovanni. Il bimbo rischiò la morte per fame, finché qualcuno non si accorse di questa grave noncuranza. Sfiorato il rachitismo per denutrizione, grazie ad un medico sveglio e preparato nel suo mestiere, il piccolo Giovanni fu sottoposto ad un regime alimentare ipercalorico, e al padre fu consigliato di mandarlo a fare sport per ovviare al pericolo di scoliosi. In pochi anni Giovanni divenne un pluri-specialista in molte discipline, soprattutto nello sci, in cui si distinse arrivando quasi al podio olimpionico.
Forse fu il pericolo di morire a infondergli amore per la vita.
Giovanni e i suoi due compagni cominciarono a camminare sulla strada, ancora incerti sul da farsi.
Nessun veicolo passò di lì, ed accettare un passaggio da sconosciuti, in quel periodo, non era del tutto consigliabile neanche per tre uomini, nonostante Giorgio ed Andrea fossero alti e ben messi.
"Dove siamo?" chiese Giorgio.
Giovanni si guardò attorno.
Avendo già iniziato a viaggiare fin da prima della guerra, possedeva un buon senso dell'orientamento e un' altrettanta buona conoscenza del territorio.
"Dovremmo essere in quel di Pordenone" ipotizzò.
"Ma quanti chilometri abbiamo fatto?" chiese Andrea.
Giovanni fece una smorfia di sufficienza.
"Forse una ventina" rispose.
"E quanti ne dovremmo ancora fare per andare a Parma?" domandò Giorgio, avvilito.
"Mah, - rispose Giovanni, tranquillo - forse trecento!".
Per un pelo Giorgio non svenne.
Ridacchiando, Giovanni lo sorresse e gli batté una mano su una spalla.
"Dai che in qualche modo a casa ci arriviamo!" lo incoraggiò.
"Si. - si lamentò Andrea - Per Natale...".
Ma l'ottimismo di Giovanni vinse una volta di più.
*********
Il carro armato
Non avevano idea di quanto avessero camminato, e di dove fossero, ma il tempo trascorso era stato scandito dal crepitare cupo dei loro scarponi sul selciato martoriato della strada, e dal brontolio dei loro stomaci vuoti.
Il vago chiarore dell'alba precoce della primavera
inoltrata svelò a un paio di centinaia di metri da dove loro si trovavano l'inconfondibile sagoma di un grosso carro armato, parcheggiato su un'area erbosa, al lato opposto della via.
Giovanni si bloccò, folgorato dalla visione, Un carro armato tutto per lui! Perché lui sapeva cosa fare con un carro armato! L'idea gli era scoppiata nel cervello la prima volta che ne aveva visto uno.
Avvicinatisi al veicolo, Giorgio e Andrea trattennero Giovanni per le spalle.
"Vorrai mica tornare a Parma con quello!"esclamò Andrea, sotto shock.
"Vuoi tornarci a piedi? - lo apostrofò Giovanni in tono amichevolmente acido - Prego. Comincia a pedalare. Ma non lamentarti se ci arrivi a Natale!".
I due fissarono il carro armato con leggero turbamento.
Durante la guerra ci erano saliti tante volte, ma chissà perché, in quell'attimo, provavano paura.
Invece Giovanni no.
Giovanni non ne era intimorito. Era salito su molti di quei mezzi per installarci la sua invenzione a fotocellule, ed era in grado di guidarlo. Non aveva la patente per condurre un'automobile, ma sapeva guidarla e, soprattutto, sapeva guidare un carro armato. Compì il periplo del mezzo accarezzandolo e radiografandolo con il suo intenso sguardo ceruleo. Sul fianco destro color fango era stata dipinta la bandiera U.S.A. con stelle e strisce.
Si guardò intorno per vedere se qualcuno si facesse vivo, magari nascosto nei paraggi, probabilmente pronto ad ucciderli, ma nessuno spuntò dall'erba alta, nessuno attraversò la strada per reclamare l'appartenenza del mezzo e non un'anima viva comparve dal nulla, armata, per far loro del male.
Via libera!
"Forza! - Giovanni esortò quindi i suoi amici, aprendo il portello del veicolo - Se c'è benzina e questo parte, siamo a casa a Ferragosto!". E notando la perplessità dei compagni, non esitò a spingerli sul carro armato assestando a ciascuno di loro un calcio nel sedere.
Salito per ultimo, Giovanni prese posto al comando e si apprestò a mettere il veicolo in moto. Il colosso ferroso era americano, capiva solo l'Inglese Americano, ma dopo una vivace sequenza di colorite bestemmie in dialetto parmense, sparata da un Giovanni in crescente crisi di nervi, ancorché ben contenuta, dette segni di ripresa e di aver capito che doveva muoversi, tossicchiando, vibrando e scuotendosi come un orso a fine letargo. Solo per metterlo sulla strada il giovane ingegnere impiegò una decina di minuti di assurde manovre; tuttavia, una volta rientrato su ciò che rimaneva di quella strada, il mastodonte cedette alla disinvoltura del suo guidatore e cominciò a grattare i rimasugli dell'asfalto, avviandosi verso Parma.
Giovanni realizzò molto presto che su quell'arnese non avrebbe mai conquistato il podio alla Formula 1, ma fu contento di procedere ad una velocità bassa, però costante, e di godersi le espressioni meravigliate negli occhi delle persone che vedevano passare il mezzo, immaginando che all'interno ci fossero i salvatori dell'Italia.
A giorno più definito, intravedendo una piccola folla di gente assieparsi lungo la statale per assistere al transito dei mezzi Alleati, Giovanni uscì dalla torretta del carro armato come una tartaruga, e salutò le persone sorridendo e agitando la mano.
Tutti applaudirono il suo passaggio, credendo che fosse inglese o americano.
*********
Verso casa
Lasciarono il ricordo della statale a Bologna per immettersi sulla Via Emilia e seguitarono la loro marcia verso casa. Giovanni lasciò Giorgio allo svincolo per Reggio Emilia, e Andrea, a quello che lo avrebbe riportato a Modena, non prima però di essere sceso dal carro e aver abbracciato a turno i due compagni della breve prigionia, con la promessa di risentirsi e rivedersi.
Non è dato di sapere se ciò accadde.
La guerra era finita.
Il 25 Aprile ne decretò il termine e l'Italia, distrutta, festeggiò l'avvenimento come la fine di un terribile incubo, durato 5 lunghi anni, e costato milioni di morti.
Da quel momento, Giovanni e i suoi compagni di sventura furono liberi e i carcerieri si disinteressarono completamente del loro destino, tornando alle antiche competenze. Ma nessuno di loro dimenticò quell'uomo, non un gigante di statura, ma con il fisico irrobustito da anni di sport, i capelli neri e gli occhi azzurri. E soprattutto nessuno dimenticò che Giovanni, ingegnere meccanico, laureatosi al Politecnico di Torino in tre anni e mezzo, aveva contribuito, nel suo piccolo, ad una svolta della guerra progettando e mettendo in pratica la possibilità di colpire i bersagli nemici di notte grazie ad un sistema di puntamento, quasi fantascientifico all'epoca, che sfruttava i raggi infrarossi e le fotocellule.
Dal momento della liberazione, Giovanni ebbe in testa di tornare a casa in un modo o nell'altro e con qualsiasi mezzo avrebbe trovato a disposizione.
Nel vasto parcheggio della base di Aviano, svuotata ed abbandonata, riposavano alcune grosse jeep. Giovanni andò in avanscoperta, salì a turno su ognuna delle auto, ne provò l'efficienza del motore e il contenuto del serbatoio, congiungendo i cavi penzolanti in basso, dopodiché, trovati due che scintillarono, confermandogli il funzionamento della vettura, fece cenno ai suoi amici, Giorgio e Andrea, di salire in macchina, quindi accese il motore e tutti e tre partirono.
A fine conflitto, le strade erano in condizioni disastrose, specialmente al Nord che aveva subito la guerra in modalità senza dubbio più pesante rispetto al resto del Paese, essendo situato al di sopra della famosa Linea Gotica. In situazione normale, con una buona automobile, la distanza fra Aviano e Parma si copre in tre ore e un quarto (circa 300 Km) ma, a fine guerra, per tornare in Emilia, Giovanni e i suoi amici impiegarono una giornata intera e dovettero considerarsi fortunati.
Pochi chilometri dopo, al volante, Giovanni si accorse che l'indicatore del carburante era in settore di riserva e sapeva che non sarebbe stato facile rimediare benzina; per di più, la tabella di marcia era notevolmente rallentata dalla gimkana che il giovane era costretto a compiere per evitare gli ostacoli costituiti da buche grandi come crateri, sassi, pezzi di asfalto saltati e lasciati in mezzo alla carreggiata, carcasse di veicoli, ed anche qualche cadavere non rimosso per assenza di servizi deputati allo scopo.
Era già notte, ma ad un certo punto, pur al buio, fra quegli ostacoli, Giovanni fu certo di vedere qualcos'altro; qualcos'altro che credette di riconoscere.
"Giù dalla macchina, ragazzi!" urlò, tuffandosi fuori dall'auto, sulla strada, lui per primo.
I due compagni, seduti al suo fianco e sul sedile posteriore dell'auto, rimasero un attimo interdetti e, ad un secondo grido dell'amico, si buttarono anche loro meccanicamente dalla macchina.
Senza più guida, la jeep avanzò per due, tre metri, come un ubriaco sulla carreggiata, ed esplose come un vulcano in eruzione, illuminando quel tratto di ciò che una volta era un nastro stradale.
Rotolati in mezzo all'erba alta dei prati, ai lati della strada, i tre restarono stesi a terra, storditi ed indolenziti dal botto per alcuni secondi poi, rialzatisi, si riunirono sul ciglio della via.
Il falò provocato dall'esplosione rivelò per qualche minuto il triste paesaggio che li circondava.
In lontananza, al confine estremo dei campi incolti, su entrambi i lati della strada, raggiunti debolmente dall'alone aranciato delle fiamme che si alzavano dal rogo della vettura, si delineavano i contorni delle macerie edilizie come spettri nelle tenebre, dai cento occhi ciechi dentro orbite nere.
"Come cavolo hai fatto a vedere quella mina al buio?" chiese allibito Andrea a Giovanni.
"Sono nictalopo" rispose Giovanni, soddisfatto.
"Nicta-che?" esclamò Andrea, che non aveva ancora mai sentito questo vocabolo.
"Nictalopo" ripeté Giovanni, divertito.
"Cos'è? Una bestia?" chiese Andrea, sempre stupito.
"Sì. - rispose Giovanni, in tono finto serio - Come te".
"Nictalopo è uno che ci vede bene di notte" tenne a precisare Giorgio, con l'aria del maestro saccente.
"Ecco, - puntualizzò Giovanni - Bravo. - si complimentò con Giorgio. Poi, rivolgendosi di nuovo ad Andrea: - Vedi? Lui ha studiato".
"Beh, ma adesso che facciamo?" chiese, sconsolato, Giorgio.
"Andiamo in cerca di un altro mezzo per tornare a casa" rispose Giovanni, nell'atteggiamento di chi era molto ottimista nel trovarlo, malgrado tutto.
Giovanni non aveva bisogno di stimoli per vedere la vita in rosa.
L'ottimismo era nel suo DNA sebbene si fosse avvicinato pericolosamente alla fine della sua esistenza in più di un'occasione, a cominciare dalla sua prima infanzia.
Sua madre era morta di spagnola quando lui aveva solo sei mesi e suo padre, non sapendo come allevarlo, lo aveva affidato ad una signora in paese che però aveva l'abitudine di dar da mangiare solo ai suoi figli, dimenticandosi del piccolo Giovanni. Il bimbo rischiò la morte per fame, finché qualcuno non si accorse di questa grave noncuranza. Sfiorato il rachitismo per denutrizione, grazie ad un medico sveglio e preparato nel suo mestiere, il piccolo Giovanni fu sottoposto ad un regime alimentare ipercalorico, e al padre fu consigliato di mandarlo a fare sport per ovviare al pericolo di scoliosi. In pochi anni Giovanni divenne un pluri-specialista in molte discipline, soprattutto nello sci, in cui si distinse arrivando quasi al podio olimpionico.
Forse fu il pericolo di morire a infondergli amore per la vita.
Giovanni e i suoi due compagni cominciarono a camminare sulla strada, ancora incerti sul da farsi.
Nessun veicolo passò di lì, ed accettare un passaggio da sconosciuti, in quel periodo, non era del tutto consigliabile neanche per tre uomini, nonostante Giorgio ed Andrea fossero alti e ben messi.
"Dove siamo?" chiese Giorgio.
Giovanni si guardò attorno.
Avendo già iniziato a viaggiare fin da prima della guerra, possedeva un buon senso dell'orientamento e un' altrettanta buona conoscenza del territorio.
"Dovremmo essere in quel di Pordenone" ipotizzò.
"Ma quanti chilometri abbiamo fatto?" chiese Andrea.
Giovanni fece una smorfia di sufficienza.
"Forse una ventina" rispose.
"E quanti ne dovremmo ancora fare per andare a Parma?" domandò Giorgio, avvilito.
"Mah, - rispose Giovanni, tranquillo - forse trecento!".
Per un pelo Giorgio non svenne.
Ridacchiando, Giovanni lo sorresse e gli batté una mano su una spalla.
"Dai che in qualche modo a casa ci arriviamo!" lo incoraggiò.
"Si. - si lamentò Andrea - Per Natale...".
Ma l'ottimismo di Giovanni vinse una volta di più.
*********
Il carro armato
Non avevano idea di quanto avessero camminato, e di dove fossero, ma il tempo trascorso era stato scandito dal crepitare cupo dei loro scarponi sul selciato martoriato della strada, e dal brontolio dei loro stomaci vuoti.
Il vago chiarore dell'alba precoce della primavera
inoltrata svelò a un paio di centinaia di metri da dove loro si trovavano l'inconfondibile sagoma di un grosso carro armato, parcheggiato su un'area erbosa, al lato opposto della via.
Giovanni si bloccò, folgorato dalla visione, Un carro armato tutto per lui! Perché lui sapeva cosa fare con un carro armato! L'idea gli era scoppiata nel cervello la prima volta che ne aveva visto uno.
Avvicinatisi al veicolo, Giorgio e Andrea trattennero Giovanni per le spalle.
"Vorrai mica tornare a Parma con quello!"esclamò Andrea, sotto shock.
"Vuoi tornarci a piedi? - lo apostrofò Giovanni in tono amichevolmente acido - Prego. Comincia a pedalare. Ma non lamentarti se ci arrivi a Natale!".
I due fissarono il carro armato con leggero turbamento.
Durante la guerra ci erano saliti tante volte, ma chissà perché, in quell'attimo, provavano paura.
Invece Giovanni no.
Giovanni non ne era intimorito. Era salito su molti di quei mezzi per installarci la sua invenzione a fotocellule, ed era in grado di guidarlo. Non aveva la patente per condurre un'automobile, ma sapeva guidarla e, soprattutto, sapeva guidare un carro armato. Compì il periplo del mezzo accarezzandolo e radiografandolo con il suo intenso sguardo ceruleo. Sul fianco destro color fango era stata dipinta la bandiera U.S.A. con stelle e strisce.
Si guardò intorno per vedere se qualcuno si facesse vivo, magari nascosto nei paraggi, probabilmente pronto ad ucciderli, ma nessuno spuntò dall'erba alta, nessuno attraversò la strada per reclamare l'appartenenza del mezzo e non un'anima viva comparve dal nulla, armata, per far loro del male.
Via libera!
"Forza! - Giovanni esortò quindi i suoi amici, aprendo il portello del veicolo - Se c'è benzina e questo parte, siamo a casa a Ferragosto!". E notando la perplessità dei compagni, non esitò a spingerli sul carro armato assestando a ciascuno di loro un calcio nel sedere.
Salito per ultimo, Giovanni prese posto al comando e si apprestò a mettere il veicolo in moto. Il colosso ferroso era americano, capiva solo l'Inglese Americano, ma dopo una vivace sequenza di colorite bestemmie in dialetto parmense, sparata da un Giovanni in crescente crisi di nervi, ancorché ben contenuta, dette segni di ripresa e di aver capito che doveva muoversi, tossicchiando, vibrando e scuotendosi come un orso a fine letargo. Solo per metterlo sulla strada il giovane ingegnere impiegò una decina di minuti di assurde manovre; tuttavia, una volta rientrato su ciò che rimaneva di quella strada, il mastodonte cedette alla disinvoltura del suo guidatore e cominciò a grattare i rimasugli dell'asfalto, avviandosi verso Parma.
Giovanni realizzò molto presto che su quell'arnese non avrebbe mai conquistato il podio alla Formula 1, ma fu contento di procedere ad una velocità bassa, però costante, e di godersi le espressioni meravigliate negli occhi delle persone che vedevano passare il mezzo, immaginando che all'interno ci fossero i salvatori dell'Italia.
A giorno più definito, intravedendo una piccola folla di gente assieparsi lungo la statale per assistere al transito dei mezzi Alleati, Giovanni uscì dalla torretta del carro armato come una tartaruga, e salutò le persone sorridendo e agitando la mano.
Tutti applaudirono il suo passaggio, credendo che fosse inglese o americano.
*********
Verso casa
Lasciarono il ricordo della statale a Bologna per immettersi sulla Via Emilia e seguitarono la loro marcia verso casa. Giovanni lasciò Giorgio allo svincolo per Reggio Emilia, e Andrea, a quello che lo avrebbe riportato a Modena, non prima però di essere sceso dal carro e aver abbracciato a turno i due compagni della breve prigionia, con la promessa di risentirsi e rivedersi.
Non è dato di sapere se ciò accadde.
Fatte le promesse, Giovanni rimontò sul mezzo e riprese la strada verso Collecchio.
Dal momento in cui era arrivata la notizia della sua cattura da parte degli Alleati, considerate le scarse possibilità di comunicare con la sua famiglia, sicuramente suo padre Leo stava in pena per lui. Chissà se Giuseppe era riuscito ad avvertire il loro genitore della sua liberazione?
Era di nuovo il tramonto quando imboccò l'ampia curva oltre la quale avrebbe dovuto rivedere la grande casa con i muri celeste chiaro e il vasto giardino intorno.
E da una finestra del salone, all'interno del casale, Leo vide avvicinarsi un carro armato che si stagliava scuro e minaccioso contro la luce porpora del Sole che calava.
"Oh no! - pensò fra sé - Era una balla! La guerra non è finita!" e mentre sentiva il panico crescere nel suo animo, lui, uomo sensibile, timido e riservato corse nello sgabuzzino vicino alla cucina per prendere il fucile. Avrebbe difeso la sua casa anche con la sua vita. Uscì sul viale e lo percorse correndo fino al grande cancello di ferro, aprì il cancello e schizzò in mezzo alla strada puntando l'arma contro il grosso mezzo cingolato.
Vedendo suo padre col fucile puntato contro di lui, Giovanni si decise ad emergere dal carro aprendo il portello della torretta, ma non perché avesse paura che suo padre gli sparasse.
"Babbo! - gridò comunque - Non sparare! At son me! Svanel (Sono io, Giovannino, in parmense)!".
Avrebbe potuto essere chiunque, ma non con quella voce! Quella voce era di Giovanni.
Finalmente il grosso carro armato si arrestò a pochi metri dai piedi di Leo e Giovanni scese dal veicolo. L' uomo non credeva ai suoi occhi che sentì inumidirsi. Il suo Giovanni era lì davanti a lui, ancora tutto d'un pezzo.
Anche Giovanni, rivedendo suo padre smarrirsi negli indumenti larghi, col viso ancor più sfilato, segnato dalle rughe e gli occhi azzurri umidi, faticò a trattenere la commozione.
Padre e figlio si abbracciarono a lungo, poi Leo incitò il ragazzo a entrare in casa.
"Avrai fame" disse.
Si. Giovanni aveva una fame da lupo e i profumi di buon cibo che provenivano dalla porta aperta contribuirono ad aprire maggiormente la voragine che si era ormai creata nel suo stomaco. Non era riuscito a metter più nulla sotto i denti dalla sera precedente. Anzi! A pensarci bene, erano più di ventiquattro ore che non toccava cibo. Oppure da quanto? Non lo ricordava con esattezza.
I pasti americani erano stati insufficienti e durante il viaggio verso casa lui e i suoi amici non avevano rimediato un posto dove poter almeno bere un caffè con una goccia di latte. Tutti i luoghi di ristoro erano stati trovati chiusi perfino in una regione come l'Emilia, ma la guerra si era appena conclusa e il nemico non aveva lasciato niente, neppure da mangiare.
Per fortuna, con i suoi allevamenti di maiali, animali da cortile, il grano e il mulino, il casale della sua famiglia era rimasto un'isola felice anche per il paese, che aveva potuto tener lontano lo spettro della fame pure nei momenti più bui del conflitto. E quella sera, in casa, Giovanni ebbe la possibilità di rimettersi in pari con il cibo.
"Peppino?" chiese, mentre s'ingozzava di salsicce preparate dalla domestica, rimasta fedele in famiglia per tutto il periodo della guerra.
"Non è ancora tornato" rispose il padre, in tono neutro.
"Enrico?".
"Neppure lui" e lo disse in tono mesto, poiché Enrico era ancora prigioniero in Germania.
"Tornerà, papà" lo rincuorò Giovanni con il suo incrollabile ottimismo.
Ed Enrico, infatti, tornò qualche giorno dopo, irriconoscibile per le sofferenze e le terribili privazioni che aveva dovuto sopportare. In Germania non aveva subito violenze per mano degli aguzzini di Hitler, ma nell'ultimo periodo di prigionia, lui ed i suoi sfortunati commilitoni erano giunti a frugare nei bidoni della spazzatura per recuperare almeno le bucce delle patate con cui potersi sfamare anche solo per pochi minuti, una volta al giorno quando era andata bene.
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La scomparsa di Giovanni
Dal giorno dopo Giovanni sparì, insieme col carro armato, all'interno di un capannone non lontano dal casale, al limitare del vasto giardino che lo circondava. Spari’ per almeno tre stagioni, durante le quali smontò il mezzo fino alle più piccole viti, fotografando ognuna di esse, tutti i componenti del veicolo, e rimontando pian piano il tutto seguendo l'idea che gli era venuta alla vista del primo esemplare di carro armato capitatogli davanti agli occhi.
E in un'uggiosa e fredda giornata padana di inizio inverno, Giovanni tornò in famiglia annunciando il lieto evento e invitando padre e fratelli a seguirlo nel capannone per vedere la causa della sua lunga assenza da casa.
Nell'ampio, ma spoglio ambiente, senza pavimento, un tempo adibito a stalla, la luce esterna, grigia di pioggia e foschia, filtrando a strisce attraverso le sbarre di ferro arrugginite, e le doghe di legno delle finestre, di cui alcune spezzate, andava a colpire un "mostro" alto e sottile che, a vederlo così, faceva pensare ad una sorta di giraffa di ferro, ambulante sui cingolati.
"Mo cos'è 'sta roba?" esclamò il genitore, fissando l'oggetto, con i suoi già grandi occhi celesti, ulteriormente allargati dalla meraviglia e dalla perplessità.
Dal carro armato, simbolo di guerra, dolore e sangue, era nata, come l'Araba Fenice risorta dalle sue ceneri, la Finitrice, maestoso macchinario che, nelle intenzioni e nei calcoli dell'ipercinetico cervello di Giovanni, avrebbe dovuto servire per livellare le strade, rendendole più scorrevoli sotto le ruote, senza asperità, senza buche e senza dossi.
La sua invenzione funzionò e quando, dopo pochi anni dalla fine del conflitto, Giovanni tornò a lavorare, questa volta sulle strade nel ruolo di direttore dei cantieri, la macchina stendeva il manto stradale tanto uniformemente da consentire ad un passeggero di scrivere appunti durante il viaggio senza che la penna saltasse di un millimetro.
Giovanni stette sveglio molte notti per completare e realizzare copie del suo progetto.
D'altronde, per lui non dormire non era una novità, anzi! Amava sbandierare che per lui dormire era tempo sprecato e infatti, quando era in pausa dal lavoro, o in vacanza, invece di rimanere a casa a riposarsi, avvisava per telefono alcuni suoi amici appassionati come lui di montagna, e si attrezzava di tutto punto per affrontare le pareti di un monte, il più possibilmente verticali, e/o per attraversare un ghiacciaio, anche in pieno inverno.
Completato e consegnato il progetto del macchinario in duplice copia: una a Parma, a una a Roma, Giovanni ottenne il brevetto per l'invenzione e alcuni esemplari della sua creatura furono chiesti anche oltre Oceano, negli Stati Uniti, dove buona parte delle arterie di comunicazione degli Stati del Nord vennero spianate con la finitrice. Egli stesso fu invitato in America a tenere conferenze sul suo macchinario ed una copia del brevetto è conservata nell'Ufficio brevetti di Chicago.
Quando però, una sera, dopo una sontuosa e lauta cena a cui aveva preso parte nella capitale dell'Illinois, Giovanni si ritirò nella sua elegante camera di un albergo di lusso e telefonò in Italia, a casa, per rendere partecipe suo padre al trionfo, si sentì rispondere con una bestemmia in parmense stretto.
"T'at venia 'n cancher (Traduzione dal parmense: "ti venga un accidente!"), sciagurato! - urlò l'anziano genitore dall'altro capo del telefono - Hai mica visto che ore sono?".
Giovanni guardò un orologio di pregiato legno lucido, con decorazioni in oro, appeso alla parete di fronte a lui. A Chicago erano le 9 di sera (negli U.S.A, si cena presto); a Collecchio erano le 3 di notte, ma a questo, Giovanni non aveva minimamente pensato!
fine