COLORI di Cinzia Masiello
28-04-2024 07:15 - Testi da leggere
COLORI
di Cinzia Masiello
di Cinzia Masiello
BIANCO
Ottobre 1961. Sono nata sul mare, in un’ora improponibile e scomoda: per tutti. Alle 23.50
veramente nessuno ha la benché minima voglia di fare alcunché di impegnativo. Anche l’impiegato
dell’Anagrafe concluse, con inopinato romanticismo, che, piuttosto che in un orario per così dire
“borderline”, s’addiceva venire al mondo inaugurando un nuovo giorno, neanche a dirlo,“ricco di promesse”,
e mi registrò con data successiva. Dalla finestra della clinica la prima mattina dalla mia recentissima
autonomia vitale s’insinuava il vociare perentorio dei pescatori gareggiando, nella camera bianchissima e
troppo luminosa, con i miei vagiti. Mia madre, mio padre e mia sorella, sei occhi puntati sulla culla,
studiavano i lineamenti del mio volto per capire a chi spettasse il merito o il demerito di quell’inedita
acquisizione nel collaudato bilancio familiare. E, per ripristinare la gerarchia sul predominio incontrollato
delle sonorità, mi misero uno spregevole tappo gommoso forzosamente in bocca. Lo sputai
immediatamente, senza remore. “Blutta“ - si palesò Laura, la primogenita – “Blutta“ - insistette. “E’ gelosa“ -
la giustificò mio padre richiamandola a sé e abbracciandola. “Le seconde vengono su meno viziate e più
autonome“ - intervenne mia madre - ristabilendo gli equilibri.
veramente nessuno ha la benché minima voglia di fare alcunché di impegnativo. Anche l’impiegato
dell’Anagrafe concluse, con inopinato romanticismo, che, piuttosto che in un orario per così dire
“borderline”, s’addiceva venire al mondo inaugurando un nuovo giorno, neanche a dirlo,“ricco di promesse”,
e mi registrò con data successiva. Dalla finestra della clinica la prima mattina dalla mia recentissima
autonomia vitale s’insinuava il vociare perentorio dei pescatori gareggiando, nella camera bianchissima e
troppo luminosa, con i miei vagiti. Mia madre, mio padre e mia sorella, sei occhi puntati sulla culla,
studiavano i lineamenti del mio volto per capire a chi spettasse il merito o il demerito di quell’inedita
acquisizione nel collaudato bilancio familiare. E, per ripristinare la gerarchia sul predominio incontrollato
delle sonorità, mi misero uno spregevole tappo gommoso forzosamente in bocca. Lo sputai
immediatamente, senza remore. “Blutta“ - si palesò Laura, la primogenita – “Blutta“ - insistette. “E’ gelosa“ -
la giustificò mio padre richiamandola a sé e abbracciandola. “Le seconde vengono su meno viziate e più
autonome“ - intervenne mia madre - ristabilendo gli equilibri.
ROSSO
Le scuole dell’obbligo le feci coi grembiuli, le coccarde e i banchi di legno, di quelli con il piano
obliquo che la bic era perfetta per inciderci frasi idiote e ghirigori per poi rotolare impietosa chissà dove e tu,
ginocchioni, a invocarla sotto la pedana di legno, che la mano veniva fuori irriconoscibile, ma almeno mi
risparmiavo a casa l’onta di essere redarguita circa la mia sbadataggine e i sacrifici dei miei.
Ogni mattina mio padre mi accompagnava con la sua Fiat 850 color sabbia in centro città, dove c’erano gli
istituti migliori e meglio frequentati, tutti figli di medici e avvocati, proprio accanto alla Cassa Mutua
Coltivatori Diretti, dove lavorava. Quel giorno, il 2 Febbraio 1971, bisognava arrivare con largo anticipo:
veniva a farci visita il Signor Sindaco. “Grembiuli impeccabili e fiocco azzurro fresco di bucato”, ordinò la
maestra Menga Lucarella Chiara Rosa. Non so come successe, ho continuato a chiedermelo per un tempo
infinito, forse avevo poggiato con troppa veemenza la cartella sul ripiano, ma, mentre tutte in piedi
recitavamo il Padre Nostro, avvertii un gocciolio sordo e regolare sulle mie scarpe. Stanca delle quotidiane
fatiche la penna aveva vomitato il suo rancore sul pane con i pomodori, che non avrei mangiato per
merenda, tracimando sul mio grembiule immacolato. “Levalo che è meglio“, disse la maestra senza
compassione, e il fotografo scattò una foto di gruppo col sindaco che stringeva la mano alla maestra e noi
della classe a fare da sfondo, me in prima fila, ché dietro andavano le più alte, gli occhiali e la gonna rossa a
pois più scuri che dovevo mettermi tutti i mercoledì.
Le scuole dell’obbligo le feci coi grembiuli, le coccarde e i banchi di legno, di quelli con il piano
obliquo che la bic era perfetta per inciderci frasi idiote e ghirigori per poi rotolare impietosa chissà dove e tu,
ginocchioni, a invocarla sotto la pedana di legno, che la mano veniva fuori irriconoscibile, ma almeno mi
risparmiavo a casa l’onta di essere redarguita circa la mia sbadataggine e i sacrifici dei miei.
Ogni mattina mio padre mi accompagnava con la sua Fiat 850 color sabbia in centro città, dove c’erano gli
istituti migliori e meglio frequentati, tutti figli di medici e avvocati, proprio accanto alla Cassa Mutua
Coltivatori Diretti, dove lavorava. Quel giorno, il 2 Febbraio 1971, bisognava arrivare con largo anticipo:
veniva a farci visita il Signor Sindaco. “Grembiuli impeccabili e fiocco azzurro fresco di bucato”, ordinò la
maestra Menga Lucarella Chiara Rosa. Non so come successe, ho continuato a chiedermelo per un tempo
infinito, forse avevo poggiato con troppa veemenza la cartella sul ripiano, ma, mentre tutte in piedi
recitavamo il Padre Nostro, avvertii un gocciolio sordo e regolare sulle mie scarpe. Stanca delle quotidiane
fatiche la penna aveva vomitato il suo rancore sul pane con i pomodori, che non avrei mangiato per
merenda, tracimando sul mio grembiule immacolato. “Levalo che è meglio“, disse la maestra senza
compassione, e il fotografo scattò una foto di gruppo col sindaco che stringeva la mano alla maestra e noi
della classe a fare da sfondo, me in prima fila, ché dietro andavano le più alte, gli occhiali e la gonna rossa a
pois più scuri che dovevo mettermi tutti i mercoledì.
VERDE
La voce inequivocabile del Gran Varietà dalla radiolina nel bagno grande e l’odore di sugo mischiato allo
zabaione nella tazza senza manico erano i segni tangibili del giorno di festa. “La vuoi una polpetta, che le ho
appena fatte?” mi tentava mia madre; io l’accettavo con studiata ingordigia, per farle piacere. Quella
domenica c’erano le teglie pronte sul tavolo, l’idrolitina e il mangiadischi con il chiange-chiange, che nel
linguaggio criptico di mia madre era Battisti, di cui non apprezzava affatto il sentimento doloroso della vita di
talune melodie.
Partimmo per il trullo coi cugini, gli zii e una decina di amici. Capeggiavo il gruppo dei piccoli, col Manuale
delle Giovani Marmotte, finché Mariella ebbe l’idea: “Andiamo a esplorare il boschetto qui vicino“ e tutti
decisero in quel preciso istante dell’urgenza di un repentino cambiamento al vertice. Ci incamminammo in
fila indiana, ignorati dai grandi che trafficavano tra ceppi di legna e paioli. “Guardate, ci sono i ciclamini“
disse qualcuno, “Ho trovato dei funghi“ incalzò un’altra voce, “Venite a vedere questo riccio“ rubò la scena
uno dei più coraggiosi; tutto ci sembrava nuovo, era nuovo e misterioso, un microcosmo declinato in tutte le
sfumature del verde. Poi ci fu la prima goccia. Due, due più due: un diluvio, anche quello di proporzioni mai
viste. Ricordo il freddo intenso, avvenente, i vestiti fradici appesi al camino, i brividi sulla pelle, un piacere
sconosciuto.
La voce inequivocabile del Gran Varietà dalla radiolina nel bagno grande e l’odore di sugo mischiato allo
zabaione nella tazza senza manico erano i segni tangibili del giorno di festa. “La vuoi una polpetta, che le ho
appena fatte?” mi tentava mia madre; io l’accettavo con studiata ingordigia, per farle piacere. Quella
domenica c’erano le teglie pronte sul tavolo, l’idrolitina e il mangiadischi con il chiange-chiange, che nel
linguaggio criptico di mia madre era Battisti, di cui non apprezzava affatto il sentimento doloroso della vita di
talune melodie.
Partimmo per il trullo coi cugini, gli zii e una decina di amici. Capeggiavo il gruppo dei piccoli, col Manuale
delle Giovani Marmotte, finché Mariella ebbe l’idea: “Andiamo a esplorare il boschetto qui vicino“ e tutti
decisero in quel preciso istante dell’urgenza di un repentino cambiamento al vertice. Ci incamminammo in
fila indiana, ignorati dai grandi che trafficavano tra ceppi di legna e paioli. “Guardate, ci sono i ciclamini“
disse qualcuno, “Ho trovato dei funghi“ incalzò un’altra voce, “Venite a vedere questo riccio“ rubò la scena
uno dei più coraggiosi; tutto ci sembrava nuovo, era nuovo e misterioso, un microcosmo declinato in tutte le
sfumature del verde. Poi ci fu la prima goccia. Due, due più due: un diluvio, anche quello di proporzioni mai
viste. Ricordo il freddo intenso, avvenente, i vestiti fradici appesi al camino, i brividi sulla pelle, un piacere
sconosciuto.
GIALLO
La pagella dell’anno scolastico 1974-1975 me la ricordo bene perché i miei decisero di premiare il mio
impegno con una vacanza-studio in Inghilterra, in tempi non sospetti, quando non era un dovere, né una
moda, né tanto meno uno status. La mia ossessione per la libertà e l’autonomia, che non mi dava tregua da
quando ero nata, venne oltremodo alimentata da questa occasione insperata: un mese lontana da casa,
quattro lunghe settimane, per misurare le mie forze e la mia capacità di stare al mondo, per di più in un
paese straniero. Mi lasciai travolgere dai ritmi, dalle luci, dalle stravaganze della Londra vintage, fino a
perdermi nel frastuono di Piccadilly Circus, per tornare dalla mia famiglia ospitante grazie alla solerzia di un
flic cui avevo chiesto aiuto. Una notte sentii i passi della padrona di casa raggiungere la mia camera al piano
superiore e bussare alla mia porta. Aveva con sé una busta gialla e mi spiegò che le avevano telefonato di
consegnarmela quanto prima. Mi affrettai ad aprire la missiva e, sulle prime, lessi senza capire, assonnata e
sottoposta in quelle condizioni e a quell’ora ad una traduzione simultanea a beneficio della mia ospite.
Mentre le parole acquistavano, una dopo l’altra, senso e spessore, misi il guinzaglio al delirio d’onnipotenza
che si era impadronito di me in quei giorni memorabili… Gli zii, quelli che di rado venivano dal Nord, mi
aspettavano a Bari.
Entrai nella stanza dei miei genitori e feci fatica a individuare i volti dei presenti, la luce era fioca e
l’atmosfera ovattata. Sul letto giaceva un uomo di mezza età che doveva essere mio padre, consunto in meno
di un mese da un male indecente. Mi afferrò la mano tirandomi a sé: troppe persone a ripartire quella
intimità. Uscendo dalla camera percepii confusamente le frasi di cordoglio di alcune compagne di scuola con
le quali non avevo mai condiviso niente. Me ne andai al mare perché era l’unica cosa che avesse senso, per
me, in quel torrido pomeriggio di fine agosto: nessuno me lo ha mai perdonato.
La pagella dell’anno scolastico 1974-1975 me la ricordo bene perché i miei decisero di premiare il mio
impegno con una vacanza-studio in Inghilterra, in tempi non sospetti, quando non era un dovere, né una
moda, né tanto meno uno status. La mia ossessione per la libertà e l’autonomia, che non mi dava tregua da
quando ero nata, venne oltremodo alimentata da questa occasione insperata: un mese lontana da casa,
quattro lunghe settimane, per misurare le mie forze e la mia capacità di stare al mondo, per di più in un
paese straniero. Mi lasciai travolgere dai ritmi, dalle luci, dalle stravaganze della Londra vintage, fino a
perdermi nel frastuono di Piccadilly Circus, per tornare dalla mia famiglia ospitante grazie alla solerzia di un
flic cui avevo chiesto aiuto. Una notte sentii i passi della padrona di casa raggiungere la mia camera al piano
superiore e bussare alla mia porta. Aveva con sé una busta gialla e mi spiegò che le avevano telefonato di
consegnarmela quanto prima. Mi affrettai ad aprire la missiva e, sulle prime, lessi senza capire, assonnata e
sottoposta in quelle condizioni e a quell’ora ad una traduzione simultanea a beneficio della mia ospite.
Mentre le parole acquistavano, una dopo l’altra, senso e spessore, misi il guinzaglio al delirio d’onnipotenza
che si era impadronito di me in quei giorni memorabili… Gli zii, quelli che di rado venivano dal Nord, mi
aspettavano a Bari.
Entrai nella stanza dei miei genitori e feci fatica a individuare i volti dei presenti, la luce era fioca e
l’atmosfera ovattata. Sul letto giaceva un uomo di mezza età che doveva essere mio padre, consunto in meno
di un mese da un male indecente. Mi afferrò la mano tirandomi a sé: troppe persone a ripartire quella
intimità. Uscendo dalla camera percepii confusamente le frasi di cordoglio di alcune compagne di scuola con
le quali non avevo mai condiviso niente. Me ne andai al mare perché era l’unica cosa che avesse senso, per
me, in quel torrido pomeriggio di fine agosto: nessuno me lo ha mai perdonato.
INDACO
Le feste il sabato sera si facevano a rotazione: prima o poi capitava di doverle organizzare a casa propria. E
non era proprio il massimo, con i genitori relegati in cucina che, comunque, approfittavano di quella
occasione per schedare una volta per tutte l’identikit fisico e psichico dei compagni: chi non passava l’esame
era out. Poi stavi fresco a cercare di rimischiare le carte per riabilitare l’appestato, il tribunale di casa mia non
riconosceva diritto d’Appello. Quella sera doveva essere speciale, erano venuti anche i ragazzi più grandi,
dell’età di mia sorella, che si erano degnati perché conoscevano una delle ragazze. Venne anche lui. Mille
volte avevo coccolato l’istante preciso in cui avrebbe varcato la soglia, ma solo con l’immaginazione, quello
che avrebbe fatto, quello che avrei detto, quello che sarebbe successo. Lo sbirciavo in piazza quando
strusciavo in centro con le gemelle, ridendo a crepapelle senza un perché e sentivo i suoi occhi sui miei
vestiti, sui capelli, alle mie spalle. Prendevamo lo stesso autobus indaco per il mare, lo sapevamo, ma non ci
conoscevamo. Un giorno arrivò ad una festa con una bionda imbalsamata e mi dissero che era la sua ragazza
da molto tempo. Non ricordo come iniziammo a frequentarci e spesso a casa mia arrivavano telefonate
mute: l’apparecchio trillava senza ritegno nel bel mezzo della casa, si scatenava una gara all’ultimo sangue
tra me e mia sorella, ma puntualmente arrivava mamma che metteva a tacere le rivendicazioni. “Pronto? Chi
parla?” Nessuno rispondeva dall’altra parte, ma neanche riagganciava, o meglio, rimaneva in linea se
rispondevo io. Adoravo quei silenzi. Il 3 Ottobre di quell’anno era venuto a casa per farmi gli auguri.
Sicuramente c’era tanta gente, sicuramente ballarono, risero, cantarono “Tanti Auguri” e soffiai sui miei
sedici anni. Ma arrivò anche il momento di salutarci: lui mi disse se l’accompagnavo giù per le scale, sei
benedettissimi piani da centellinare, sfiorandoci inavvertitamente, quando, all’improvviso, si fermò e mi mise
una mano tra i capelli. Qualcuno chiamò l’ascensore e, subito dopo, avvertimmo dei passi provenienti da giù,
sempre più vicini, vicinissimi: sentii, tutti sentirono, la voce stentorea di mia madre che esclamava: “si ricordi
che mia figlia è abituata a congedare le persone sulla porta di casa“ e mi scaraventò nell’ascensore.
Le feste il sabato sera si facevano a rotazione: prima o poi capitava di doverle organizzare a casa propria. E
non era proprio il massimo, con i genitori relegati in cucina che, comunque, approfittavano di quella
occasione per schedare una volta per tutte l’identikit fisico e psichico dei compagni: chi non passava l’esame
era out. Poi stavi fresco a cercare di rimischiare le carte per riabilitare l’appestato, il tribunale di casa mia non
riconosceva diritto d’Appello. Quella sera doveva essere speciale, erano venuti anche i ragazzi più grandi,
dell’età di mia sorella, che si erano degnati perché conoscevano una delle ragazze. Venne anche lui. Mille
volte avevo coccolato l’istante preciso in cui avrebbe varcato la soglia, ma solo con l’immaginazione, quello
che avrebbe fatto, quello che avrei detto, quello che sarebbe successo. Lo sbirciavo in piazza quando
strusciavo in centro con le gemelle, ridendo a crepapelle senza un perché e sentivo i suoi occhi sui miei
vestiti, sui capelli, alle mie spalle. Prendevamo lo stesso autobus indaco per il mare, lo sapevamo, ma non ci
conoscevamo. Un giorno arrivò ad una festa con una bionda imbalsamata e mi dissero che era la sua ragazza
da molto tempo. Non ricordo come iniziammo a frequentarci e spesso a casa mia arrivavano telefonate
mute: l’apparecchio trillava senza ritegno nel bel mezzo della casa, si scatenava una gara all’ultimo sangue
tra me e mia sorella, ma puntualmente arrivava mamma che metteva a tacere le rivendicazioni. “Pronto? Chi
parla?” Nessuno rispondeva dall’altra parte, ma neanche riagganciava, o meglio, rimaneva in linea se
rispondevo io. Adoravo quei silenzi. Il 3 Ottobre di quell’anno era venuto a casa per farmi gli auguri.
Sicuramente c’era tanta gente, sicuramente ballarono, risero, cantarono “Tanti Auguri” e soffiai sui miei
sedici anni. Ma arrivò anche il momento di salutarci: lui mi disse se l’accompagnavo giù per le scale, sei
benedettissimi piani da centellinare, sfiorandoci inavvertitamente, quando, all’improvviso, si fermò e mi mise
una mano tra i capelli. Qualcuno chiamò l’ascensore e, subito dopo, avvertimmo dei passi provenienti da giù,
sempre più vicini, vicinissimi: sentii, tutti sentirono, la voce stentorea di mia madre che esclamava: “si ricordi
che mia figlia è abituata a congedare le persone sulla porta di casa“ e mi scaraventò nell’ascensore.
IRIDE
Quell’estate smaterializzò gli esami di Filosofia in un appagamento laico, profano, di carne, sudore,
polvere e sangue. Nel viaggio, esanime, accartocciata sul valigione 4 stagioni, incastrato nella fisarmonica del
treno anni 80, respiravo umori, schiamazzi osceni e mele, sgranocchiate dagli studenti della tratta Pisa-
Apulia: gli occhi costretti ad altezza di culi, cosce e anelli del girone di seconda classe. Vite, racconti e rancori
intrecciati inestricabilmente, da non trovare nemmeno lo spazio per andare a pisciare. E poi mamma, sorella,
la sporcizia delle strade e la goccia di sudore che si forma, si sostanzia, lenta, e implacabile, capelli-occhio-
zigomo-guancia, s’interseca incosciente e raggiunge il confine delle labbra, appagandosi finalmente nel
profilo piano di un sorriso: casa. Luglio rovente di Puglia, di magliette madide e notti stesa per terra, sul
marmo freddo, l’arsura in gola e sulla pelle . La p e l l e.
Quella sera non volevo neanche uscire, tutto il santo giorno a indossare la sabbia, a stordirmi di mare. Al
telefono insistevano, e mi piaceva. C’era una barca ad aspettarci e una canzone ad avvilupparci e il profumo
di doposole e acqua di colonia a bruciarci le narici. Ragazzi e ragazze con le facce giuste. E la tua faccia
sbagliata, beffarda, a sbriciolare e sminuzzare in poltiglia passato presente e futuro. Nell’andirivieni
spasmodico sul natante, neanche me n’ero accorta, dei gomiti sfiorati, di mani nervose, di toni eccessivi:
troppo ridevamo. Ma quando mi cercasti, squillando nella gogna imperscrutabile del telefono nel corridoio,
mentre mangiavamo in cucina, ti riconobbi senza esitare. Sulla p e l l e. Non so come facevi a trovare le
chiavi per aprire tutte le porte. Camminavamo e mi chiedevi: dove vuoi entrare? Io ti indicai un palazzo
qualsiasi di una strada qualunque. Tirasti fuori un mazzo dalla tasca e infilasti quella giusta, mentre il cuore
andava a mille. Il portone cedette docile all’invito e prendemmo l’ascensore sino ad arrivare davanti ad una
porta. Se ti va entriamo, dicesti. Anche quell’ostacolo si lasciò violare e il mio corpo era scosso da fremiti.
Capii che non avrei più avuto limiti, una vertigine ci percorse per mesi, una febbre, un bisogno smemorato,
un’irresolutezza programmata, inchiodati al nostro spaesamento, lontani anni luce dalle impellenze. Due
teppisti. Una notte non riuscivo a prendere sonno, mille sipari si aprivano senza richiudersi, un’afa innaturale
di fine settembre. Vidi il vetro smerigliato della porta assumere progressivamente la propria fisionomia
iridescente, mobile e cangiante alle prime luci, per accogliere e definire l’ombra con la sagoma di mamma:
hanno telefonato dall’ospedale, mi disse costernata. C’è stato un incidente mortale stanotte sulla statale per
Massafra. Mi domandai istupidita come avrei fatto a riacciuffare il ritmo cadenzato del mio ciclo vitale, a
tirare fuori il caffelatte da un bicchiere di whisky.
Quell’estate smaterializzò gli esami di Filosofia in un appagamento laico, profano, di carne, sudore,
polvere e sangue. Nel viaggio, esanime, accartocciata sul valigione 4 stagioni, incastrato nella fisarmonica del
treno anni 80, respiravo umori, schiamazzi osceni e mele, sgranocchiate dagli studenti della tratta Pisa-
Apulia: gli occhi costretti ad altezza di culi, cosce e anelli del girone di seconda classe. Vite, racconti e rancori
intrecciati inestricabilmente, da non trovare nemmeno lo spazio per andare a pisciare. E poi mamma, sorella,
la sporcizia delle strade e la goccia di sudore che si forma, si sostanzia, lenta, e implacabile, capelli-occhio-
zigomo-guancia, s’interseca incosciente e raggiunge il confine delle labbra, appagandosi finalmente nel
profilo piano di un sorriso: casa. Luglio rovente di Puglia, di magliette madide e notti stesa per terra, sul
marmo freddo, l’arsura in gola e sulla pelle . La p e l l e.
Quella sera non volevo neanche uscire, tutto il santo giorno a indossare la sabbia, a stordirmi di mare. Al
telefono insistevano, e mi piaceva. C’era una barca ad aspettarci e una canzone ad avvilupparci e il profumo
di doposole e acqua di colonia a bruciarci le narici. Ragazzi e ragazze con le facce giuste. E la tua faccia
sbagliata, beffarda, a sbriciolare e sminuzzare in poltiglia passato presente e futuro. Nell’andirivieni
spasmodico sul natante, neanche me n’ero accorta, dei gomiti sfiorati, di mani nervose, di toni eccessivi:
troppo ridevamo. Ma quando mi cercasti, squillando nella gogna imperscrutabile del telefono nel corridoio,
mentre mangiavamo in cucina, ti riconobbi senza esitare. Sulla p e l l e. Non so come facevi a trovare le
chiavi per aprire tutte le porte. Camminavamo e mi chiedevi: dove vuoi entrare? Io ti indicai un palazzo
qualsiasi di una strada qualunque. Tirasti fuori un mazzo dalla tasca e infilasti quella giusta, mentre il cuore
andava a mille. Il portone cedette docile all’invito e prendemmo l’ascensore sino ad arrivare davanti ad una
porta. Se ti va entriamo, dicesti. Anche quell’ostacolo si lasciò violare e il mio corpo era scosso da fremiti.
Capii che non avrei più avuto limiti, una vertigine ci percorse per mesi, una febbre, un bisogno smemorato,
un’irresolutezza programmata, inchiodati al nostro spaesamento, lontani anni luce dalle impellenze. Due
teppisti. Una notte non riuscivo a prendere sonno, mille sipari si aprivano senza richiudersi, un’afa innaturale
di fine settembre. Vidi il vetro smerigliato della porta assumere progressivamente la propria fisionomia
iridescente, mobile e cangiante alle prime luci, per accogliere e definire l’ombra con la sagoma di mamma:
hanno telefonato dall’ospedale, mi disse costernata. C’è stato un incidente mortale stanotte sulla statale per
Massafra. Mi domandai istupidita come avrei fatto a riacciuffare il ritmo cadenzato del mio ciclo vitale, a
tirare fuori il caffelatte da un bicchiere di whisky.
CELESTE
L’ultimo giorno in cui ho tenuto una sigaretta fra le mani me lo ricordo bene perché condivideva lo spazio
con una scatolina allungata, celeste chiaro, che avevo comprato in farmacia. Guardavo il Tevere dalla finestra
della foresteria e aspettavo che trascorresse il tempo deputato per conoscere il responso. Era diverso ora:
tutti i tasselli della mia vita occupavano uno spazio rispettabile, la laurea, l’impiego, il matrimonio con un
bravo ragazzo, una posizione. La gravidanza, ora, poteva a buon diritto definirsi desiderata. Avevo imparato,
a mie spese, che le aspirazioni, per essere partecipate, devono esprimersi e avverarsi a tempo debito. Quel
giorno ho smesso di fumare e sono diventata astemia. Una brava madre e una moglie affidabile. Ho sbavato
giorno dopo giorno il mio bozzolo di seta grezza dentro il quale mi sono sentita al sicuro. Da me stessa. Ho
provato benessere nel farlo, nel lasciarmi alle spalle i capelli in balia del vento, a volte una brezza leggera, più
spesso folate da lasciarmi scarmigliata e infreddolita. La mia casa rimandava la mia metamorfosi: avevo
trovato un posto per ogni cosa, mi ero circondata di tutto ciò che amavo e accarezzavo gli oggetti togliendo
la polvere, ripercorrevo mentalmente le tappe della mia esistenza scivolando senza far rumore. Fino a
quando ci venne comunicato che ci saremmo trasferiti in un’isola, anzi un’isola nell’isola sarda. Mi sentii
spiazzata.
La Maddalena mi prese con un capogiro, la testa roteava sulla giostra di carrozze e cavallucci a dondolo,
sempre raffiche di maestrale a sferzarmi il volto, mentre percorrevo l’isola in bicicletta, in lungo e in largo. Mi
resi conto che qualcosa doveva essermi successa una splendida mattina di maggio, il mare una tavola celeste
distesa, inerme, alla mercé di un sole galante e inoffensivo. Mi ero sdraiata sul pontile, testimone di quel
miracolo, e, senza rendermene conto, cominciai a cantare, dapprima tra me e me, poi a voce sempre più alta,
fino a gridare. Mio figlio da lontano cominciò a sbracciarsi al mio indirizzo, poi a correre verso di me. Arrivò
col fiatone, per avvisarmi che proprio dietro la curva, che da lì non potevo vedere, c’era un gruppo di signore,
esterrefatte dal mio cantare a squarciagola. Per tutta risposta ripresi la canzone dal punto in cui l’avevo
interrotta, mentre gli occhiali da sole filtravano l’imbarazzo dipinto negli occhi del ragazzo.
L’ultimo giorno in cui ho tenuto una sigaretta fra le mani me lo ricordo bene perché condivideva lo spazio
con una scatolina allungata, celeste chiaro, che avevo comprato in farmacia. Guardavo il Tevere dalla finestra
della foresteria e aspettavo che trascorresse il tempo deputato per conoscere il responso. Era diverso ora:
tutti i tasselli della mia vita occupavano uno spazio rispettabile, la laurea, l’impiego, il matrimonio con un
bravo ragazzo, una posizione. La gravidanza, ora, poteva a buon diritto definirsi desiderata. Avevo imparato,
a mie spese, che le aspirazioni, per essere partecipate, devono esprimersi e avverarsi a tempo debito. Quel
giorno ho smesso di fumare e sono diventata astemia. Una brava madre e una moglie affidabile. Ho sbavato
giorno dopo giorno il mio bozzolo di seta grezza dentro il quale mi sono sentita al sicuro. Da me stessa. Ho
provato benessere nel farlo, nel lasciarmi alle spalle i capelli in balia del vento, a volte una brezza leggera, più
spesso folate da lasciarmi scarmigliata e infreddolita. La mia casa rimandava la mia metamorfosi: avevo
trovato un posto per ogni cosa, mi ero circondata di tutto ciò che amavo e accarezzavo gli oggetti togliendo
la polvere, ripercorrevo mentalmente le tappe della mia esistenza scivolando senza far rumore. Fino a
quando ci venne comunicato che ci saremmo trasferiti in un’isola, anzi un’isola nell’isola sarda. Mi sentii
spiazzata.
La Maddalena mi prese con un capogiro, la testa roteava sulla giostra di carrozze e cavallucci a dondolo,
sempre raffiche di maestrale a sferzarmi il volto, mentre percorrevo l’isola in bicicletta, in lungo e in largo. Mi
resi conto che qualcosa doveva essermi successa una splendida mattina di maggio, il mare una tavola celeste
distesa, inerme, alla mercé di un sole galante e inoffensivo. Mi ero sdraiata sul pontile, testimone di quel
miracolo, e, senza rendermene conto, cominciai a cantare, dapprima tra me e me, poi a voce sempre più alta,
fino a gridare. Mio figlio da lontano cominciò a sbracciarsi al mio indirizzo, poi a correre verso di me. Arrivò
col fiatone, per avvisarmi che proprio dietro la curva, che da lì non potevo vedere, c’era un gruppo di signore,
esterrefatte dal mio cantare a squarciagola. Per tutta risposta ripresi la canzone dal punto in cui l’avevo
interrotta, mentre gli occhiali da sole filtravano l’imbarazzo dipinto negli occhi del ragazzo.
NERO
Nero. Come i capelli che non potrò più avere, aveva sottolineato la mia parrucchiera di fiducia, non dopo i
quaranta: accentuano gli spigoli, signora, tipici della terza età, non mi dica che non è d’accordo. Nero il
tailleur che avevo tirato fuori dall’armadio, nere le scarpe, nera la borsa. Lucida. Salii in macchina e Adriana
parlava, parlava anche la radio, anche il cellulare del collega cominciò a parlare e le parole si aggrovigliarono
sull’asfalto che correva veloce dal finestrino. Nera quella notte senza luna. Entrammo nel locale assordante e
abbacinato da una luce al neon da illuminare la polvere negli angoli dei tavoli. Con la coda dell’occhio mi
sincerai del mio posto vuoto attorno alla tavola imbandita. Intercettai, avviandomi, la presenza di un volto
noto, salutai, i piedi inchiodati, e parlai, una parola, due, una frase, due frasi, punto e punto e virgola. Arrivò
anche l’ultima delle parole e le scarpe girarono su se stesse, tac tac tac, fino al tavolo. Gli occhi fissi sulla
girandola parossistica dei vassoi impegnati in una danza senza regole. La mano raccolse qualcosa dal piatto e
la posò dove doveva. Quel sapore l’avevo già sentito. Era successo quella mattina, nello studio dell’avvocato
presso cui mi costringevo a lavorare: “Dovremmo impostare il discorso a partire dalla dignità umana,
dottoressa. Troverà materiale utile alle sue ricerche nel tomo alla sua sinistra“. Mi volsi alla libreria e, in quel
preciso istante, mi resi conto che quell’odore di minestrone attaccato ai muri di quella casa studio, con le
finestre sprangate, mi dava la nausea.
Nero. Come i capelli che non potrò più avere, aveva sottolineato la mia parrucchiera di fiducia, non dopo i
quaranta: accentuano gli spigoli, signora, tipici della terza età, non mi dica che non è d’accordo. Nero il
tailleur che avevo tirato fuori dall’armadio, nere le scarpe, nera la borsa. Lucida. Salii in macchina e Adriana
parlava, parlava anche la radio, anche il cellulare del collega cominciò a parlare e le parole si aggrovigliarono
sull’asfalto che correva veloce dal finestrino. Nera quella notte senza luna. Entrammo nel locale assordante e
abbacinato da una luce al neon da illuminare la polvere negli angoli dei tavoli. Con la coda dell’occhio mi
sincerai del mio posto vuoto attorno alla tavola imbandita. Intercettai, avviandomi, la presenza di un volto
noto, salutai, i piedi inchiodati, e parlai, una parola, due, una frase, due frasi, punto e punto e virgola. Arrivò
anche l’ultima delle parole e le scarpe girarono su se stesse, tac tac tac, fino al tavolo. Gli occhi fissi sulla
girandola parossistica dei vassoi impegnati in una danza senza regole. La mano raccolse qualcosa dal piatto e
la posò dove doveva. Quel sapore l’avevo già sentito. Era successo quella mattina, nello studio dell’avvocato
presso cui mi costringevo a lavorare: “Dovremmo impostare il discorso a partire dalla dignità umana,
dottoressa. Troverà materiale utile alle sue ricerche nel tomo alla sua sinistra“. Mi volsi alla libreria e, in quel
preciso istante, mi resi conto che quell’odore di minestrone attaccato ai muri di quella casa studio, con le
finestre sprangate, mi dava la nausea.
ARANCIO
Dal settembre 2008 al settembre 2013 sono vissuta in Tunisia. Un capovolgimento di prospettiva. All’inizio
pensavo che mai sarei riuscita a guidare nel formicaio dei suk e nell’anarchia dei boulevard, ma dopo
pochissimo tempo andavo dovunque e facevo come loro. Nei mercati era logico toccare con mano la
freschezza della merce e nelle panetterie ognuno saggiava la fragranza del pane affondando le dita lerce,
prima di eleggere la baguette di turno. La raccolta differenziata avveniva nei bidoni della spazzatura: passava
qualcuno a caricarsi sulla bici montagne di bottiglie di plastica da rivendere, poi c’era chi prendeva il pane
vecchio per gli animali, a qualcuno interessava il metallo e i gatti ripulivano tutto il resto. I bambini facevano
chilometri, anche dalle campagne, per andare a scuola e i miei figli non chiedevano più jeans firmati e
cellulari ultimo grido: semplicemente non se ne vedevano, ergo non esistevano. Si parlavano tre lingue,
anche a scuola, in ogni scuola, dai telegiornali arrivavano notizie dal mondo. Tutto era più facile, da fare e da
capire. Tutto era possibile. Un giorno era arrivata la sabbia dal deserto, aveva ricoperto ogni cosa di un colore
ocra-arancio, caldo e avvolgente: presi un cartoncino dalla camera dei ragazzi, un pennello rimediato dai loro
astucci, e cominciai a dipingere. Non mi sono più fermata.
Dal settembre 2008 al settembre 2013 sono vissuta in Tunisia. Un capovolgimento di prospettiva. All’inizio
pensavo che mai sarei riuscita a guidare nel formicaio dei suk e nell’anarchia dei boulevard, ma dopo
pochissimo tempo andavo dovunque e facevo come loro. Nei mercati era logico toccare con mano la
freschezza della merce e nelle panetterie ognuno saggiava la fragranza del pane affondando le dita lerce,
prima di eleggere la baguette di turno. La raccolta differenziata avveniva nei bidoni della spazzatura: passava
qualcuno a caricarsi sulla bici montagne di bottiglie di plastica da rivendere, poi c’era chi prendeva il pane
vecchio per gli animali, a qualcuno interessava il metallo e i gatti ripulivano tutto il resto. I bambini facevano
chilometri, anche dalle campagne, per andare a scuola e i miei figli non chiedevano più jeans firmati e
cellulari ultimo grido: semplicemente non se ne vedevano, ergo non esistevano. Si parlavano tre lingue,
anche a scuola, in ogni scuola, dai telegiornali arrivavano notizie dal mondo. Tutto era più facile, da fare e da
capire. Tutto era possibile. Un giorno era arrivata la sabbia dal deserto, aveva ricoperto ogni cosa di un colore
ocra-arancio, caldo e avvolgente: presi un cartoncino dalla camera dei ragazzi, un pennello rimediato dai loro
astucci, e cominciai a dipingere. Non mi sono più fermata.
GRIGIO
Oggi mi sono guardata allo specchio: e non, come faccio abitualmente, una rapida occhiata con lo
spazzolino tra i denti. E’ stato in macchina, mentre aspettavo che mio figlio terminasse la lezione di tennis. Il
sole era basso all’orizzonte e colpiva il mio profilo migliore. Mi è tornata in mente una canzone in cui si
paragona un volto al crollo di una diga. Ecco, ci siamo, mi sono detta, e col pollice e l’indice ho cominciato a
darmi dei pizzicotti per cercare di distendere i lineamenti che mi rimandava l’immagine di fronte. Non c’era
gusto a stringere quella carne. Sicuramente mio zio, che da piccola mi torturava afferrando le gote tra due
dita e rigirandole in senso orario, si sarebbe ritratto inorridito. Pelle senza carne, senza spessore, un
involucro di copertura, senza vita e senza colore, se non per il grigiastro delle vene, di cui è fin troppo facile
ora seguire evoluzioni e confluenze. Quando era successo? Quando la mappatura del territorio aveva
infranto la mia faccia? La prima volta doveva essere stata quel pomeriggio, dopo la scuola, che mi ero
avvicinata, come sempre, ai ragazzi per chiedere se avessero bisogno d’aiuto nei compiti. Fu l’ultima volta
che glielo chiesi e, da quel giorno, trovai anche le porte delle camere chiuse. Sono iniziate le pizze con gli
amici e i bisbigli in radiofrequenza hanno preso il posto delle nostre conversazioni. Le mattine si sono fatte
più lunghe, anche i pomeriggi si sono dilatati ed ho iniziato a guardare in tralice il carrello della spesa per il
mercato rionale. Se la mattina non prendo il treno per andare al lavoro, non esco di casa: detesto incontrare
vecchi sulle panchine e mamme nei giardinetti. Mi esercito a irreggimentare il ribollio scendendo a patti con
la realtà. Ogni giorno una richiesta di pace: lo facevo sempre, giocando con Maria, la bambina del piano di
sopra, che neanche al tavolo arrivavamo: facevamo la casetta con le bambole sotto, tra le gambe delle sedie,
perché sopra il tavolo c’era l’Angelo “guaiaprofanarlo”, una coperta a garantire l’intimità e lei con l’indice e il
medio a tormentarsi continuamente le labbra con quel suono monotono brbrbrbrbr, “mi sono
scompagnata”, diceva. Ma l’altro giorno, che portavo il ragazzo a scuola, ha attraversato la strada la sua prof
di chimica e lui ha commentato, laconico: “Qualcuno dovrà spiegarle che non è più una studentessa”. Aveva
uno zaino sulle spalle. Il mio era sul sedile posteriore.
***
Oggi mi sono guardata allo specchio: e non, come faccio abitualmente, una rapida occhiata con lo
spazzolino tra i denti. E’ stato in macchina, mentre aspettavo che mio figlio terminasse la lezione di tennis. Il
sole era basso all’orizzonte e colpiva il mio profilo migliore. Mi è tornata in mente una canzone in cui si
paragona un volto al crollo di una diga. Ecco, ci siamo, mi sono detta, e col pollice e l’indice ho cominciato a
darmi dei pizzicotti per cercare di distendere i lineamenti che mi rimandava l’immagine di fronte. Non c’era
gusto a stringere quella carne. Sicuramente mio zio, che da piccola mi torturava afferrando le gote tra due
dita e rigirandole in senso orario, si sarebbe ritratto inorridito. Pelle senza carne, senza spessore, un
involucro di copertura, senza vita e senza colore, se non per il grigiastro delle vene, di cui è fin troppo facile
ora seguire evoluzioni e confluenze. Quando era successo? Quando la mappatura del territorio aveva
infranto la mia faccia? La prima volta doveva essere stata quel pomeriggio, dopo la scuola, che mi ero
avvicinata, come sempre, ai ragazzi per chiedere se avessero bisogno d’aiuto nei compiti. Fu l’ultima volta
che glielo chiesi e, da quel giorno, trovai anche le porte delle camere chiuse. Sono iniziate le pizze con gli
amici e i bisbigli in radiofrequenza hanno preso il posto delle nostre conversazioni. Le mattine si sono fatte
più lunghe, anche i pomeriggi si sono dilatati ed ho iniziato a guardare in tralice il carrello della spesa per il
mercato rionale. Se la mattina non prendo il treno per andare al lavoro, non esco di casa: detesto incontrare
vecchi sulle panchine e mamme nei giardinetti. Mi esercito a irreggimentare il ribollio scendendo a patti con
la realtà. Ogni giorno una richiesta di pace: lo facevo sempre, giocando con Maria, la bambina del piano di
sopra, che neanche al tavolo arrivavamo: facevamo la casetta con le bambole sotto, tra le gambe delle sedie,
perché sopra il tavolo c’era l’Angelo “guaiaprofanarlo”, una coperta a garantire l’intimità e lei con l’indice e il
medio a tormentarsi continuamente le labbra con quel suono monotono brbrbrbrbr, “mi sono
scompagnata”, diceva. Ma l’altro giorno, che portavo il ragazzo a scuola, ha attraversato la strada la sua prof
di chimica e lui ha commentato, laconico: “Qualcuno dovrà spiegarle che non è più una studentessa”. Aveva
uno zaino sulle spalle. Il mio era sul sedile posteriore.
***