SCACCO MATTO racconto di Cinzia Masiello
28-04-2024 06:46 - Testi da leggere
SCACCO MATTO
di Cinzia Masiello
di Cinzia Masiello
Quando Sua Maestà il Re si destò quella mattina, dei pensieri foschi gli agitavano la mente: adesso che il Ministro Mazzarino era morto, bisognava assumere personalmente la direzione del paese. Il Regno di Francia necessitava di un riordinamento interno, dove non c’era più spazio per l’autorità dei cardinali. Luigi XIV voleva essere responsabile - lui solo - davanti a Dio. I sudditi non avrebbero saputo ribellarsi a nessuna ingiustizia. Continuò a rigirarsi nel letto in preda a un fervore immaginativo inatteso e invasivo, come d’ansia febbricitante, che pervadeva tutte le membra, accelerando i ritmi vitali, mentre un calore crescente s’insinuava sotto le coltri del talamo regale. Un vivo disappunto si dipinse sul volto del sovrano: detestava visceralmente quel perentorio arrendersi dell’organismo a stati eccitativi incontrollabili e francamente disdicevoli per il Delfino di Francia. Quella giornata, baciata da un sole primaverile fuori stagione, sembrava aver inizio sotto i peggiori auspici. L’illustrissima mente di Sua Maestà concepì un piano infallibile per riportare l’anima imbizzarrita ad una più idonea pacificazione dei sensi: niente mieteva successi a tal proposito meglio dei rassicuranti e puntuali rituali quotidiani, ai quali abbandonarsi con fiducia e riconoscenza, avviluppati in un abbraccio rassicurante in cui nessun dardo riesce a fare breccia. Era sempre stato così, sin da quando infante assegnava ad ogni oggetto il suo posto esclusivo, sempre lo stesso, sempre quello, paventando di dover scoprire, prima o poi, una collocazione alternativa e destabilizzante. Erano le 8.00 dunque di un giorno come tanti, si disse il sovrano, e stava per essere svegliato dal cameriere che dormiva ai piedi del letto. Ancora qualche istante e i paggi avrebbero spalancato la porta. Sua Maestà si sarebbe concesso all’ammirazione e alla compiacenza della servitù e dei suoi più stretti collaboratori, consumando una frugale colazione e adempiendo alla toilette mattutina, al termine della quale un lacché gli avrebbe porto un vassoio da cui scegliere un fazzoletto, tra i tanti di pregiatissima fattura, con ricami e fiocchi di raso, per adornare l’abito prescelto per quella giornata, compatibilmente all’umore e agli impegni di Stato e mondani. Giunse l’irrinunciabile appuntamento quotidiano con la Santa Messa, alla presenza dell’orchestra, magnifica e solenne: bisognava riconoscere che da quando il maestro Lulli era divenuto compositore della Camera del Re e i musicisti vivevano a Palazzo, le stanze echeggiavano spesso di soavi melodie, colonna sonora nella danza delle ore ed ogni gesto, costretto dalle circostanze, diveniva suo malgrado più lieve e più gentile. Luigi XIV probabilmente non sarebbe stato in grado di ammetterlo e neanche avrebbe voluto, ma avvertiva a livello epidermico che attraverso la musica si sentiva talvolta più uomo e meno re: non di rado chiamava alcuni componenti dell’orchestra in camera sua per improvvisare un concertino, per poi addormentarsi appagato. Ma quel giorno, benedetto giorno di fine inverno del Regno di Francia, le note si affollarono nei pensieri reverendissimi, suggeriti dall’Ave Maria, per strattonarli senza alcun ritegno verso miserevoli (dato il contesto) calcoli di strategia politica, che, dapprima, sorpresero il sovrano attonito e disorientato. A ben riflettere, l’aver richiamato a corte la sublime Euterpe, musa ispirata e ispiratrice, aveva innegabilmente apportato il piacere e il benessere promessi dall’etimologia, ma era soprattutto la ragion di stato ad aver registrato un crescente consenso. Con l’avallo di Sua Maestà, la musica era divenuta ovunque protagonista: l’educazione di una fanciulla della buona società contemplava necessariamente la capacità di percorrere agevolmente gli irti sentieri della danza e del canto, veicolati dallo studio del liuto e del clavicembalo. Le lodi al Signore si disputarono l’attenzione del sovrano, sgomitando tra i virtuosismi di Mademoiselle Jacquet, quindici anni percorsi da un talento e una grazia da mandare tutti in visibilio. Amen, la messa era finita e Luigi XIV andò, come prescriveva il rito, particolarmente in pace con se stesso.
La sagoma del Primo Gran Maggiordomo si stagliò davanti a Sua Maestà all’uscita della Cappella reale, oscura ma inconfondibile in controluce, avvolta, si sarebbe detto, da un’aura mistica per effetto dei bagliori di messer lo frate sole, rifletteva ispirato il Delfino. Furono, in effetti, i miasmi nauseabondi che avvertì approssimandosi vieppiù alla tozza e corpulenta figura che lo attendeva a riportarlo al profano, suggerendogli l’urgenza di promuovere a corte, accanto alle arti, l’utilizzo su vasta scala delle essenze profumate di Grasse, in ottemperanza al concetto d’igiene più all’avanguardia. Per soprammercato, il sovrano doveva recarsi, gli venne comunicato, al maneggio della grande scuderia della Reggia, che certo non era il luogo più adatto per gratificare le percezioni olfattive. Da lì avrebbe avuto inizio quel pomeriggio la consueta battuta di caccia e, a giudicare dall’aria insolitamente mite della mattina, niente impediva a ché la serata vedesse quel luogo prescelto per il concerto della sera: sicuramente il Primo Consigliere avrebbe obiettato che la grande serra, le sponde del Canale, per non parlare delle sale del palazzo, costituivano luoghi più idonei per ospitare tal sorta di convito, ma … la “buonanima” del Cardinale era sicuramente, allo stato attuale, coinvolta in eccelsi e metafisici simposi.
Sua Maestà , al ricordo del suo prezioso collaboratore, si raccolse per pochi istanti in se stesso, osservò un minuto di silenzio…e decise della perentorietà di quella lezione: mai più avrebbe nominato un Primo Ministro. Quest’ultima presa di posizione aveva lasciato piuttosto sconcertato lo stesso sovrano, che l’aveva concepita, continuando a ronzare nelle regali meningi persino nelle meritate ore del riposo notturno, che tale non fu e rese intollerabile ancora una volta la permanenza nel pur invitante giaciglio.
Fu di buonora, dunque, che Re Luigi chiamò a raccolta i diecimila addetti alla sontuosa dimora: in silenzio ossequioso, i sudditi di Sua Maestà ristettero nel grande slargo antistante i giardini, ansiosi di conoscere la ragione dell’inconsueta adunata. Si dice che la notte sia saggia consigliera e, bisognava ammetterlo, l’insonnia, negli ultimi tempi fedele compagna di letto del sovrano, aveva infuso rinnovata energia nella prevedibilità del quotidiano. Era come se di notte potesse osare, di pensare e di fare, l’inconfessabile, spingendosi con le ali dell’immaginario oltre i confini del consentito e delle convenienze, senza avvertire dietro di sé, pronta a colpire, la mannaia dei sensi di colpa. E questa scoperta risultava sbalorditiva nella griglia sinottica del Re Sole, lui che, chiunque riteneva, sempre e comunque avrebbe potuto osare senza dar conto a nessuno, certo di trovare sempre e comunque tutti ai suoi piedi.
Con gli occhi sbarrati, rivolti agli splendidi affreschi che campeggiavano oltre i panneggi del baldacchino, Sua Maestà si rendeva conto, per la prima volta da quando a cinque anni era passato dai ludi al trono, di non essere mai stato padrone di se stesso e del suo essere nel mondo, mai libero di decidere alcunché, per quanto tutti dovessero credere il contrario. Irretito nelle regole del dover essere, aveva talvolta avvertito una sensazione di soffocamento, opportunamente e vigliaccamente attribuita di volta in volta ai ricercati e quanto mai ingombranti abiti di rappresentanza. Ora sentiva di avere in sé la forza per riprendersi la dignità della libera scelta, togliendola agli altri, in una sorta di sordida rivincita di cui nessuno, eccetto l’autore, sarebbe divenuto consapevole. Era una voce stentorea e soddisfatta quella che il Re si sentì emettere mentre annunciava agli astanti che la primavera sarebbe stata salutata a Versailles con grandiosi festeggiamenti dalla risonanza epocale: balli in maschera, rappresentazioni teatrali, tornei, concerti e banchetti, da definire sin nei minimi dettagli, con il contributo di tutti. Un mormorio composto serpeggiò tra i presenti, consapevoli, soprattutto coloro che lavoravano di braccia, del notevole dispendio d’energia che avrebbe richiesto l’allestimento; alquanto meditabondo il Colbert, che, in qualità di Ministro dell’Economia, aveva la deformazione professionale di tradurre nell’immediato qualsivoglia proposta in moneta sonante. Dall’alto della propria visuale, il Delfino si godeva lo spettacolo, adorava lo stupore dipinto sui volti della gente, soprattutto in quella circostanza in cui la novella rivelata sarebbe stata presa in considerazione limitandosi al suo significato letterale. Nessuno, almeno per ora, sarebbe stato in grado di svelarne i possibili risvolti, meno che mai il disegno politico che ne costituiva la vera anima. Tutti, però, compresero al volo che non c’era tempo da perdere, se, come precisò il sovrano, l’evento avrebbe dovuto aver luogo a partire dal 5 maggio di quell’anno.
Di lì a breve si mise pertanto in moto la macchina organizzativa. L’intendente Ravet ebbe il delicato compito di convocare il grande Molière e l’iperbolico Racine, affinché pungolassero il proprio genio per elaborare commedie e tragedie da portare a battesimo a Versailles, così da legarne il nome a quello del sovrano. Relativamente a questo proposito Sua Maestà sorrise indulgente nel ricordare quella frase del Fedra rivolta contro gli odiosi adulatori, “il dono più funesto che la collera divina possa fare ai re”: ah, quanto poteva errare la poesia, lontana com’era dalla vile realtà del governo di un paese! C’era stato, se ben ricordava, un italiano di Firenze alla corte di Luigi XII, che avrebbe avuto l’ardore di argomentare sulla incompatibilità della morale con le ragioni della politica, nelle vesti di Segretario della Cancelleria della Repubblica, circostanza quest’ultima che certo doveva pur significare qualcosa. Ma i tempi non erano fortunatamente maturi perché i sudditi afferrassero appieno le implicazioni di tale assunto: il Delfino di Francia doveva rappresentare agli occhi di tutti il garante e l’emanazione del connubio perfetto tra la legge di Dio e quella degli uomini. Per genesi stessa, ogni prescrizione di governo avrebbe preventivamente ottenuto il benestare dall’Altissimo. Conseguentemente, non sarebbe stato possibile tollerare forme di insubordinazione. Tuttavia – rifletteva Sua Maestà – affinché l’essere umano accettasse di essere, per così dire, ‘guidato’ senza recalcitrare, occorreva offrirgli una contropartita, come al cavallo la zolletta zuccherina, metaforizzò, nella sua infinita magnanimità, il Re Sole. La Reggia di Versailles sarebbe divenuta il mezzo e il fine per legare la nobiltà e il nascente mondo del commercio e degli affari sempre più alla corona.
Luigi XIV si guardò intorno: ovunque l’occhio si posasse sostava illanguidito dalla bellezza dirompente di Madre Natura, opportunamente educata ai voleri del senso estetico e dell’arte topiaria. In un montaggio alternato, parossistico e incalzante, lo spettatore veniva rapito da una sorta di stordimento, in cui emergevano di volta in volta statue, specchi d’acqua, viali immensi e macchie di colore. Per poi voltarsi su se stesso e rimanere sopraffatto dalla maestosità delle architetture rococò. Chiunque avesse sperimentato il privilegio di calpestare il suolo del Castello, in preda alla fascinazione, si sarebbe sentito parte di un grande progetto, di cui avrebbe giocoforza condiviso le regole di gioco. Luigi XIV fece un breve cenno ai due valletti che lo seguivano a passo felpato, pronti ad intervenire per agevolare qualsiasi impellenza del Re, senza al contempo essere invadenti. Si fece preparare la carrozza e decise che quel pomeriggio l’avrebbe consacrato alla ricognizione dell’intero territorio della Reggia, così da poter stabilire con esattezza la pertinenza dei luoghi rispetto ai diversi e molteplici aspetti della Grande Festa.
Ci vollero ben due mesi affinché ogni desiderio di Sua Maestà potesse essere esaudito, attraverso il reperimento delle risorse, dei materiali, nonché del personale più e meno specializzato, che dovette lavorare alacremente anche nella simulazione di quello che avrebbe dovuto essere il risultato finale. Le cucine furono messe a dura prova, come anche gli stomaci dei residenti, dai più umili alle personalità altolocate, per saggiare l’impatto con le pietanze più tradizionali e quelle di nuova generazione. Ostriche alle erbe, anatre, insalate alla violetta si affiancavano ai più tradizionali legumi (i piselli erano molto alla moda), alle omelette, alle quiche, alle creme e al marzapane. Più di trecento varietà di frutta provenienti dai giardini reali furono testate; fecero il loro ingresso alimenti sconosciuti, come la scorzonera spagnola, le arance portoghesi, gli spinaci arabi, le melanzane delle indie e fagioli e tacchino americani. La coppia reale, previo controllo da parte degli assaggiatori, sottoponeva al proprio giudizio le bevande esotiche, che facevano furore presso la nobiltà: cioccolato e caffè. Comodamente assisi al desco regale, il re e la regina davano o meno il loro assenso alle stoviglie in argento e in maiolica, alla trasparenza dei bicchieri provenienti da Venezia, giudicavano la finezza della biancheria da tavola, srotolavano impietosi i tovaglioli piegati con pregevole maestria, talvolta a guisa di coniglio, talaltra di cane o chioccia. Sua Maestà era consapevole di doversi sacrificare per il bene della Francia, ma certo non trovava piacevole subire quotidianamente gli occhi puntati su di lui dalle dame privilegiate, sedute di fronte e immobili come ‘sgabelli’, come venivano difatti graziosamente soprannominate: in particolare riteneva disdicevole che lo si osservasse insistentemente allorché si esimeva dal far uso della forchetta, ridicolo attrezzo già in voga da qualche tempo, fatto apposta per privare il commensale del piacere di condividere col cibo un’emozione selvaggia e primordiale.
In quei mesi che precedettero i festeggiamenti fu chiamato alla Reggia il grande François Vatel, Maestro di cerimonie saggiato dal Re Sole presso il Principe di Condé: suo compito era quello di fornire ai banchetti una veste scenografica tale da coinvolgere i convitati in un vortice di sensualità, dove il piacere del cibo si esaltava nel godimento percettivo. Fu proprio il Vatel a suggerire a Sua Maestà di chiamare al Castello un ecclesiastico, certo Dom Pérignon, di cui si favoleggiava, piuttosto che la vocazione spirituale, la capacità di dar luogo ad un tipo di fermentazione alternativa a quella del vino, con risultati inebrianti. Niente fu trascurato. Si fecero arrivare casse di fuochi d’artificio per illuminare le sere lungo il Gran Canale. Natanti di ogni genere furono ordinati e fatti costruire, taluni a imitazione delle gondole veneziane. Sua Maestà dedicò mo lte giornate alla preparazione dei balletti di corte a tema mitologico: senza tema di smentita, si complimentava senza falsa modestia il sovrano, era dotato di una spontanea eleganza e di un vero talento per la danza. Prediligeva i balli in maschera, che richiedevano un cambio di otto, dieci costumi a serata. Furono convocati a Palazzo i migliori e i più fantasiosi sarti di Francia, per le esigenze del sovrano, della sua consorte e di tutte le dame e i damerini che pretendevano di dare bella mostra di sé.
In quel tempo di preparativi il Delfino continuava a ripetersi che tutto ciò che faceva era per il bene della Francia, solleticando la propria vanità per il disegno che aveva concepito, senza chiedere la benché minima consulenza a ministri, intendenti e consiglieri: quella grande festa di corte sarebbe stata, all’insaputa di tutti, il viatico per legare sempre di più alla corona la nobiltà riottosa, che, opportunamente blandita, non solo avrebbe accettato, ma avrebbe ‘liberamente’ scelto di vivere accanto al Re nella splendida cornice di una dispendiosa vita di corte.
Il primo passo da fare, immediatamente prima del via ai festeggiamenti, era la creazione di ulteriori blasonati. Ipso facto l’intendente Ravet convocò aristocratici, borghesi e magistrati: li avrebbe miracolosamente trasfigurati in fedeli sostenitori di Luigi XIV. Il gran giorno si annunciò con una mattina ammaliante, un silenzio irreale avvolgeva tutte le cose, come se temessero di respirare e col gesto profanare la perfetta sincronia degli eventi. A paragone, si disse Sua Maestà, dei brevi istanti sospesi che dividono le prove d’orchestra dall’esecuzione vera e propria. Quello sarebbe stato il ‘suo’ concerto, ne conosceva a perfezione la partitura, per averla composta da se medesimo: la sinfonia avrebbe conquistato gli invitati, in un crescendo di virtuosismo. Ogni orchestrale intento all’interpretazione, lo sguardo risolutamente rivolto al maestro di cappella, rispettandone le pause e gli intervalli, persuaso protagonista ma in realtà semplice esecutore, ignaro e predisposto ad essere fagocitato dall’onda anomala della Ragion di Stato. Il suo autore volle darle un nome: si sarebbe chiamata la festa de “I piaceri dell’isola incantata” e avrebbe avuto per tema l’Orlando Furioso dell’Ariosto. Tutti risposero all’appello e la reggia si beò della presenza di quindicimila persone. Le fontane esplosero in caleidoscopici giochi d’acqua, in sintonia con ritmi e melodie prescelte dal sovrintendente alla musica Lulli, dispettose e protese scientemente sulle dame accompagnate da lacchè con gli ombrellini, pronti a proteggere le candide membra dal sole e dagli schizzi. Un via vai di servitori faceva sì che ciascun ospite fosse coccolato e viziato, sollevato dalla benché minima incombenza: se qualcuno lo avesse richiesto, sicuramente gli sarebbe stata risparmiata persino la fatica di respirare. Il Re interpretava Ruggero trattenuto con i suoi cavalieri nell’isola della Fata Alcina dal cui sortilegio riusciva alfine a liberarsi grazie all’anello di Angelica. La rappresentazione offriva il pretesto per organizzare una competizione con ghiotto premio in palio: il cavaliere che fosse riuscito a prendere l’anello, avrebbe ricevuto in dono dalle mani della Regina una spada d’oro e brillanti. A questo seguirono nei dieci giorni di festeggiamenti, dal 5 al 14 del mese di maggio dell’Anno del Signore 1664, molti altri tornei con lance, spade e chiaverine, da infilzare a scelta sulla testa di un turco, su quella di un moro, oppure sulle serpi del capo di Medusa, sapientemente realizzate e somiglianti al vero, per invogliare il cavaliere a dare il meglio di sé: il vincitore, il duca di Coishine, ricevette una rosa di diamanti.
Tutto sembrava procedere secondo copione, con invitati soggiornanti a Palazzo e ospiti occasionali, quando, nel corso della terza giornata dedicata alle molteplici varianti del piacere, un gran trambusto scompaginò i ritmi predefiniti della kermesse. Inseguito dalle guardie reali che non erano riuscite, sebbene numerose, a bloccarlo all’ingresso, avanzò incespicando nella Galleria degli Specchi, il celebre Jean La Fontaine. La sua fu un’irruzione con soldati al seguito che, nel tentativo di acciuffarlo, nel parapiglia generale mirando all’obiettivo sbagliato, si mettevano l’un l’altro fuori combattimento. Lo sconcerto si dipinse sugli occhi dei danzatori, mentre le grida scomposte di due donzelle pesantemente ruzzolate sul pavimento aumentavano il panico generale. Luigi XIV fulminò con lo sguardo l’intruso e i suoi occhi di ghiaccio si moltiplicarono in un attimo per i gelidi occhi di tutti i sovrani del mondo, rimbalzando da uno specchio all’altro della sala fino ad inchiodare, carichi di rinnovato livore, quelli del ribelle raccontatore di favole. E del presunto e probabile
attentatore alla sua vita.
Era ancora viva in Sua Maestà la spiacevole sensazione, per non dire consapevolezza, di essere messo in ridicolo, allorché mesi addietro gli era capitato tra le mani il manoscritto della fiaba “Il Re e L’Asino”, fattogli recapitare dalla Sorbona per apporvi l’eventuale censura. Gli animali parlanti di quelle favole parlavano il linguaggio degli uomini, criticando il potere e ironizzando su chi ce l’ha.
Nel fermo immagine di quanti assistevano alla scena, le domande si affollavano senza trovare risposta nella mente del Delfino di Francia, impegnato in una lotta contro il tempo per decidere l’atteggiamento da tenere nei confronti di quell’uomo che rifiutava di rinunciare alla libertà di pensiero. Inopinatamente, un’espressione indefinibile, forse di rinnovata fiducia nella propria lucidità mentale, attraversò il volto regale. Invitò lo scrittore ad avvicinarsi al trono e lo presentò con tutti gli onori ai suoi ospiti. Questi ultimi sulle prime rimasero impietriti, con studiate facce inespressive, indecisi sul comportamento da tenere: aspettavano, per l’appunto, un cenno dal direttore d’orchestra.
Sua Maestà, proprio in quel momento, fu certo che aveva ben seminato e i frutti non si sarebbero fatti attendere. Sollevò, dunque, entrambe le mani con studiata lentezza, le portò al livello del petto e, dapprima quasi impercettibilmente, poi sempre più forte iniziò a battere le mani. Sollecitati dal loro Re, gli invitati presero ad applaudire calorosamente La Fontaine, che appariva sbigottito e del tutto inerme: avrebbe voluto stupire, ma era lui a restare stupefatto. Sicuramente questo risultato solleticò la natura caparbia del sovrano, suggerendogli un piano più sottile per piegare l’avversario. Per far sì che si sentisse con le spalle al muro, occorreva metterlo nell’imbarazzo. Con la coda dell’occhio Sua Altezza osservò dalle finestre l’effetto scenografico degli spazi esterni: candelabri a ventiquattro candele e più di mille torce sorrette dai valletti mascherati. Non poteva pretendere di meglio la sua risolutezza nel voler inscenare la partita decisiva per il futuro della Francia.
Comunicò dunque prontamente al La Fontaine di sentirsi onorato della sua inusitata presenza a Palazzo, sicuramente da condividere con le decine di migliaia di ospiti che affollavano i giardini lungo le vasche. Si diede quindi, ordine di montare nel più breve tempo possibile un palchetto dal quale l’affabulatore avrebbe potuto declamare a gran voce l’ultima della sue fatiche, accompagnato da un lieve sottofondo musicale. Non poco era costato a Sua Maestà pronunciare il nome di quella favola istigatrice, un volgare invito all’insubordinazione, dove addirittura si faceva sostenere a un lupo la superiorità del suo stato di animale povero e libero, mettendolo a confronto con quello di un cane ben curato dal padrone ma obbediente ai suoi voleri. Se l’avesse contestato apertamente, o ancor peggio censurato, avrebbe ancor più avvalorato la sua tesi, vestendo i panni del tiranno. Le
pedine andavano mosse facendo attenzione a che l’avversario cadesse egli stesso nella rete, accorgendosene quando era ormai troppo tardi. E che quella fosse la strada giusta fu subito chiaro a Sua Maestà, allorché il ‘poeta’ balbettò un grazie reverente, mentre si apprestava a raggiungere la pedana.
Gli archi, i flauti e il clavicembalo risuonarono nell’aria tiepida di quella sera dei miracoli. Le parole cominciarono a srotolarsi l’una di seguito all’altra, dilatandosi, espandendosi, assumendo nuove connotazioni e, via via che il racconto procedeva, si delineavano inediti significati ed implicazioni inattese. I pedoni, il Cavallo e l’Alfiere ansimavano esausti, ormai sopraffatti da quella partita ad armi dispari. Bisognava riconoscere, annotava il sovrano, che quel sovvertitore era un vero maestro nell’arte di piegare a sé lo strumento linguistico: abilità che, opportunamente indirizzata, certamente poteva essere messa a giusto frutto per il bene del paese.
L’oratore concluse con gli accordi perentori di lulliana fattura il suo sproloquio, acclamato dall’uditorio, conscio di aver preso parte a un rovesciamento di equilibri di cui sfuggiva la portata.
Molti conoscevano i lavori del La Fontaine, li avevano subito riconosciuti nei protagonisti e nelle atmosfere. Tuttavia qualcosa, ma a ben riflettere molto, era cambiato negli accenti e nelle sottolineature: in definitiva ciò che sembrava lo stesso, non era più lo stesso. Ci sono agnelli che non si possono salvare, era stato argomentato: si può compiangerli in un soprassalto di umanità, ma mai nessuno, se non a rischio di soccombere, riuscirà ad agire contro natura. Scacco matto.
***
Nel fermo immagine di quanti assistevano alla scena, le domande si affollavano senza trovare risposta nella mente del Delfino di Francia, impegnato in una lotta contro il tempo per decidere l’atteggiamento da tenere nei confronti di quell’uomo che rifiutava di rinunciare alla libertà di pensiero. Inopinatamente, un’espressione indefinibile, forse di rinnovata fiducia nella propria lucidità mentale, attraversò il volto regale. Invitò lo scrittore ad avvicinarsi al trono e lo presentò con tutti gli onori ai suoi ospiti. Questi ultimi sulle prime rimasero impietriti, con studiate facce inespressive, indecisi sul comportamento da tenere: aspettavano, per l’appunto, un cenno dal direttore d’orchestra.
Sua Maestà, proprio in quel momento, fu certo che aveva ben seminato e i frutti non si sarebbero fatti attendere. Sollevò, dunque, entrambe le mani con studiata lentezza, le portò al livello del petto e, dapprima quasi impercettibilmente, poi sempre più forte iniziò a battere le mani. Sollecitati dal loro Re, gli invitati presero ad applaudire calorosamente La Fontaine, che appariva sbigottito e del tutto inerme: avrebbe voluto stupire, ma era lui a restare stupefatto. Sicuramente questo risultato solleticò la natura caparbia del sovrano, suggerendogli un piano più sottile per piegare l’avversario. Per far sì che si sentisse con le spalle al muro, occorreva metterlo nell’imbarazzo. Con la coda dell’occhio Sua Altezza osservò dalle finestre l’effetto scenografico degli spazi esterni: candelabri a ventiquattro candele e più di mille torce sorrette dai valletti mascherati. Non poteva pretendere di meglio la sua risolutezza nel voler inscenare la partita decisiva per il futuro della Francia.
Comunicò dunque prontamente al La Fontaine di sentirsi onorato della sua inusitata presenza a Palazzo, sicuramente da condividere con le decine di migliaia di ospiti che affollavano i giardini lungo le vasche. Si diede quindi, ordine di montare nel più breve tempo possibile un palchetto dal quale l’affabulatore avrebbe potuto declamare a gran voce l’ultima della sue fatiche, accompagnato da un lieve sottofondo musicale. Non poco era costato a Sua Maestà pronunciare il nome di quella favola istigatrice, un volgare invito all’insubordinazione, dove addirittura si faceva sostenere a un lupo la superiorità del suo stato di animale povero e libero, mettendolo a confronto con quello di un cane ben curato dal padrone ma obbediente ai suoi voleri. Se l’avesse contestato apertamente, o ancor peggio censurato, avrebbe ancor più avvalorato la sua tesi, vestendo i panni del tiranno. Le
pedine andavano mosse facendo attenzione a che l’avversario cadesse egli stesso nella rete, accorgendosene quando era ormai troppo tardi. E che quella fosse la strada giusta fu subito chiaro a Sua Maestà, allorché il ‘poeta’ balbettò un grazie reverente, mentre si apprestava a raggiungere la pedana.
Gli archi, i flauti e il clavicembalo risuonarono nell’aria tiepida di quella sera dei miracoli. Le parole cominciarono a srotolarsi l’una di seguito all’altra, dilatandosi, espandendosi, assumendo nuove connotazioni e, via via che il racconto procedeva, si delineavano inediti significati ed implicazioni inattese. I pedoni, il Cavallo e l’Alfiere ansimavano esausti, ormai sopraffatti da quella partita ad armi dispari. Bisognava riconoscere, annotava il sovrano, che quel sovvertitore era un vero maestro nell’arte di piegare a sé lo strumento linguistico: abilità che, opportunamente indirizzata, certamente poteva essere messa a giusto frutto per il bene del paese.
L’oratore concluse con gli accordi perentori di lulliana fattura il suo sproloquio, acclamato dall’uditorio, conscio di aver preso parte a un rovesciamento di equilibri di cui sfuggiva la portata.
Molti conoscevano i lavori del La Fontaine, li avevano subito riconosciuti nei protagonisti e nelle atmosfere. Tuttavia qualcosa, ma a ben riflettere molto, era cambiato negli accenti e nelle sottolineature: in definitiva ciò che sembrava lo stesso, non era più lo stesso. Ci sono agnelli che non si possono salvare, era stato argomentato: si può compiangerli in un soprassalto di umanità, ma mai nessuno, se non a rischio di soccombere, riuscirà ad agire contro natura. Scacco matto.
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